Una maggior cultura, consapevolezza ed attenzione sui potenziali rischi di viaggio e permanenza del personale tecnico trasfertista in nazioni extra-EU

Nei miei precedenti incarichi lavorativi l’argomento della sicurezza del personale tecnico viaggiante mi ha sempre coinvolto quotidianamente in prima persona, dapprima direttamente come trasfertista e successivamente come coordinatore e gestore di attività di site/field service (cantieri, fabbriche, impianti, navi, piattaforme offshore). In più di 25 anni nel comparto ho avuto modo di accumulare tutta una serie di esperienze professionali che mi hanno fatto comprendere quanto le operazioni di preparazione e gestione trasferta necessitino di un continuo miglioramento ed adeguamento globale ai mutevoli contesti internazionali presso i quali si andrà ad operare con il proprio personale. Sono pertanto un forte sostenitore che tali operazioni non debbano essere coordinate, gestite, amministrate, dirette da solo personale Junior o non sufficientemente esperto della materia/mestiere come a volte si legge sulle inserzioni di lavoro più recenti.

Il tema delle attività in trasferta internazionale (in particolare extra EU in nazioni emergenti, contesti disagiati) è da sempre poco noto soprattutto ai non addetti ai lavori (anche la stessa AIRE non dispone di vere e proprie percentuali per rappresentare l’elevato numero di migliaia di “expats” costituito dai trasfertisti “resident/long-stays” del comparto macchinari, fabbriche manifatturiere, impianti industriali, navale, edile, etc.) e ci si accorge dell’esistenza dei nostri numerosi connazionali lavoratori all’estero ahimè solo in presenza di sinistri (operai, tecnici, periti, ingegneri professionisti non solo in grado di montare e mettere in servizio macchinari complessi, ma il più delle volte anche capaci di dirigere “on-site” la costruzione ed avviamento “da zero” di grandi fabbriche ed impianti completi in aree fortemente isolate, disagiate e/o pericolose).

Probabilmente le cause di questa scarsa conoscenza del “mestiere” di tecnico trasfertista oltre che delle relative problematiche, criticità e rischi professionali sono da imputare in parte ad una scarsa cultura aziendale (quasi sempre solo prodotto-centrica oltre che orientata a valorizzare maggiormente le risorse d’ufficio/fabbrica con percorsi di carriera più strutturati/articolati a discapito di quelle impiegate in campo nelle trasferte) sulle operazioni in campo, ma soprattutto ad una legislazione (legge 81) che è sufficientemente chiara e completa nell’ambito degli adempimenti di sicurezza per la propria sede produttiva (al solito, lavoro in fabbrica/ufficio) o nelle attività cantieristiche da titolo IV (es. operazioni lavorative operate da un elevato numero di squadre altamente organizzate e coordinate direttamente in sito sul territorio nazionale), ma che a mio avviso è incompleta (lato comprensione e casistiche contemplate) nelle parti relative a “singoli lavoratori viaggianti” che eseguono attività specialistiche direttamente (in maniera spot o continuativa) presso i clienti industriali in ambito nazionale ed estero (anche se con i recenti interpelli sull’obbligo del preposto per i lavoratori in solitario, la normativa inizia a comprendere meglio le operazioni in trasferta).

Da quando esiste il testo unico, uno degli adempimenti immediati da affrontare lato sicurezza è individuare chi sia per ogni trasferta lavorativa tecnica il dirigente, preposto e lavoratore (su tali nomine e sulla confusione normativa per chi effettivamente ricopre “di fatto” di volta in volta tale ruolo a guida/tutela/sorveglianza dei singoli trasfertisti in missione ci vorrebbe un articolo dedicato, anche se con gli interpelli sopra citati si rafforza invece la necessità di avere uno o più preposti itineranti dedicati a vigilare con ispezioni random in tutti i siti lavorativi).

Incarichi che vanno sempre, subito ed ininterrottamente supportati dai team HR e HSE (oltre che dal resto degli enti aziendali che potrebbero venir coinvolti nelle operazioni di field-service) per facilitare e condividere le ulteriori importanti responsabilità assunte da chi riveste di volta in volta questi ruoli (chi opera nel settore saprà già per certo che quanto sopra descritto è solo il punto di partenza per dar via a tutte le fasi di analisi, preparazione ed esecuzione per individuare/evitare/mitigare i rischi tipici/probabili dell’attività specialistica che si andrà a svolgere all’estero in campo).

Ma c’è poi un altro tema lato legge 81 (chi si occupa di organizzazione, gestione trasferte dovrebbe anche studiarsi tutta una serie di sentenze della cassazione, in modo da ricordarsi di non prendere mai sotto gamba il proprio benestare “frettoloso” allo spostamento-viaggio di un tecnico, anche se dettato da forti pressione del cliente o della propria direzione) che la pandemia ha fatto emergere ed è quello della “trasferta in sicurezza” intesa anche come “viaggio, logistica e permanenza in sicurezza all’estero” che ha messo in evidenza i limiti organizzativi di molte aziende (soprattutto quelle più piccole) che già operavano da tempo in ambito internazionale essenzialmente grazie alla grande esperienza professionale del proprio personale trasfertista senior in grado di muoversi e organizzarsi agevolmente oltre confine con un buon livello di autonomia e conoscenza/attenzione dei rischi professionali specifici della missione.

Infatti chi come lo scrivente ha iniziato da ragazzo negli inizi anni 90 ad andare in trasferta (anche in aree a rischio, isolate, disagiate o con forti/rigide regole sugli usi/costumi locali e restrizioni agli spostamenti) ha imparato da solo autonomamente (a volte seguendo le indicazioni/istruzioni dei colleghi senior o apprendendo dai propri errori e situazioni impreviste) a viaggiare e lavorare in “sicurezza” con un supporto non sempre continuativo dalla casa madre (non esistevano e-mail e telefonini, a volte la linea fissa internazionale era solo alle poste ed i voli per determinate città erano solo settimanali) e soprattutto evitare disagi e rischi in nazioni socialmente, culturalmente ed economicamente molto diverse dall’Europa. 

Dal 2000 in poi l’estremismo religioso, i conflitti/crisi regionali, il terrorismo, i rapimenti e l’aumento della micro criminalità (derivante da situazioni di crescente povertà/disuguaglianza sociale) hanno reso più pericoloso e complicato spostarsi “da soli” per lavoro (senza la necessaria preparazione e supporto in loco) in certe aree del pianeta e solo le grandi aziende più strutturate come gli EPC contractor che operavano già da tempo all’estero in aree a rischio hanno ulteriormente potenziato e strutturato la loro organizzazione per rendere ancora più sicure le trasferte del proprio personale e dei propri fornitori subappaltatori.

Questa evoluzione non è purtroppo avvenuta di pari grado in molte PMI che solo in parte hanno saputo strutturarsi per gestire al meglio le operazioni del proprio personale viaggiante (perlopiù affidandandosi all’organizzazione messa in piedi dai clienti ed agenti locali).

La scossa finale è stata data dal covid-19 che ha obbligato giocoforza anche queste imprese a strutturarsi per farsi carico integralmente dell’organizzazione delle proprie trasferte con un livello di preparazione, attenzione, dettaglio e cura precedentemente impensabili (chi se la sarebbe sentita, legge permettendo… di inviare senza la necessaria completa e precisa organizzazione logistica i propri colleghi in contesti con situazioni sanitarie e tensioni sociali altamente a rischio).

Oggi è sempre più in aumento il numero di PMI che hanno ripreso ad inviare i propri tecnici in trasferta (non in tutte le nazioni ovviamente a causa di diffuse crisi politiche-militari) un risultato (impensabile durante i lockdown) che si è ottenuto potenziando la propria struttura interna, affidandosi anche anche a società specializzate in travel security management che già operavano in contesti esteri complessi (heavily regulated countries, harsh/hazardous areas, hostile environments) oltre a consulenti esterni (ex-trasfertisti) esperti nella gestione organizzativa ed esecutiva delle attività di field-service internazionale.

Purtroppo in tempi più recenti è aumentato nuovamente il rischio nei viaggi e permanenze in nazioni estere a causa del repentino aumento dei conflitti regionali e del degrado nelle relazioni internazionali tra molti paesi una volta ritenuti sicuri. Per tale motivo oltre a sviluppare una maggior cultura geopolitica (e qui le tecniche e strumenti OSINT possono essere d’aiuto) consiglio sempre alle organizzazioni di impegnarsi nell’approfondimento della nuova ISO 31030 (travel risk management) oltre che della più generale ISO 31000 (in combinazione con la OSHAS 18001 ed ISO 45001) anche e soprattutto per i lavoratori trasfertisti in solitario

Inoltre è sempre meno da sottovalutare in contesti complessi (con elevato grado di controllo, sorveglianza del personale straniero) l’uso degli strumenti digitali PC e smartphone (anche personali) da parte dei tecnici trasfertisti. Tecnologie digitali che se usate in maniera non consapevole (anche della sola legislazione nazionale dove si risiede per lavoro) possono creare problemi durante le trasferte (esempio usare VPN, messaggistica crittografata o cifrature dei dati sugli hard-disk è diventato illegale in diverse nazioni).

“Sistemi Linux vs Ransomware”​ soluzioni a basso costo di Cyber Resilience & Digital Operations Survival Platforms per avere a disposizione (nelle piccole organizzazioni di gestione service industriale) dei computer d’emergenza durante gli attacchi informatici (oltre che durante le disfunzioni delle principali piattforme digitali commerciali sia cloud che on-premises)

** Tecnologo informatico-gestionale (libero professionista) per l’interesse pubblico-sociale del territorio e dell’economia di prossimità. Sempre aperto ad incarichi-interventi per digitalizzare (con un paradigma ecosostenibile basato sull’ingegnosità-innovazione frugale avanzata e riuso-ricondizionamento dei propri computers Windows obsoleti, da convertire in moderne workstations/server Linux “privacy-enhanced”) il territorio e/o aree rurali-disagiate (anche estere) in contesti SOHO (Small Office/Home Office) privi dei necessari budget d’acquisto di tecnologie informatiche proprietarie/commerciali per rafforzare resilienza operativa digitale, privacy, confidenzialità e concentrazione-intenzionalità cognitiva durante l’uso dei PC e/o da adottare anche in caso di eventi complessi ed emergenziali (blocco globale catene di fornitura, blackout, calamità), ma soprattutto durante i sempre più diffusi attacchi informatici, disfunzionalità ed indisponibilità dei tradizionali sistemi ICT proprietari e servizi in cloud (anche causa cambi delle politiche-licenze commerciali e/o non rispetto del GDPR) **

Non passa giorno senza essere messi a conoscenza dell’ennesima azienda locale vittima di attacchi informatici ransomware creati per autopropagarsi in rete, criptare gli hard-disk e rendere di fatto inutilizzabile tutta l’infrastruttura digitale colpita (almeno sino al pagamento di un cospicuo riscatto in criptovaluta). Solo recentemente un importante e strategica infrastruttura cloud della pubblica amministrazione nazionale è finita fuori servizio per settimane creando innumerevoli problemi a cittadini, imprese (fatturazione elettronica) ed enti statali. Per non parlare di quello che accaduto a livello globale con il crash informatico mondiale del 19 luglio 2024, a causa di un banale e “benevolo” errore d’aggiornamento software di un importante azienda IT.

E’ facile pensare che il fenomeno sia relegato solo ad artigiani, ditte individuali, studi professionali, micro-piccole imprese (tradizionalmente in difficoltà ad investire nell’informatica per la cronica mancanza di sufficienti risorse finanziarie) e quando si scopre che anche le medie e grandi aziende (che invece investono maggiormente nel digitale) ma soprattutto le infrastrutture critiche, enti governativi, difesa (oltre alle aziende stesse di sicurezza informatica) sono a loro volta vittime di tali attacchi, si comprende il perchè molte nazioni (in Europa principalmente Francia, Germania, paesi scandinavi, baltici e recentemente anche Svizzera) stiano spingendo già da tempo le loro organizzazioni governative (e non solo quelle) a passare al sistema operativo Linux.

Anche il governo cinese ha creato (per motivi di crescita ed indipendenza-sovranità tecnologica, anche lato infrastrutture nazionali per l’IA) un’apposita serie di distribuzioni Linux, per un utilizzo mirato all’interno di enti pubblici, militari e strategici (nella federazione Russa è stata ancor prima intrapresa un’azione simile a quella cinese anche se meno pubblicizzata visto che è stata realizzata principalmente per l’ambito difesa). Una transizione tecnologica controcorrente (rispetto alle scelte tecnologiche del passato) che guarda caso riguarda soprattutto i maggiori stati (stando alla stampa internazionale) dietro ai principali attacchi informatici perpetrati nell’area continentale.

Il fatto poi che uno dei più grandi produttori internazionale di computer sito in Pechino abbia già da diversi anni iniziato a promuovere su larga scala la vendita di desktop e portatili Linux per un’utilizzo anche in ambito business nel mercato nazionale ed estero dovrebbe far riflettere su quella che è la strada maestra da percorrere a livello digitalizzazione “più sicura” futura.

Qui in Italia (ma non nel resto d’Europa in particolare in Francia dove il software libero è considerato un pilastro per l’indipendenza-sovranità tecnologica nazionale “Souveraineté économique”) si pensa ancora che le workstations basate su Linux non siano adatte alla maggior parte delle nostre imprese ed enti pubblici (nel mentre numerosi imprenditori visionari d’oltre oceano o asiatici hanno da tempo creato nuovi business milionari anche grazie all’uso sapiente del software libero).

In effetti se in ufficio (noncuranti del fatto che quasi tutto quello che ideiamo-realizziamo-archiviamo sul computer-cloud può essere potenzialmente analizzato con telemetrie proprio dai produttori dei software. . vedi Recall su Windows 11 ) si utilizzano gestionali sviluppati su Windows o programmi specialistici di progettazione e disegno CAD (che è poi la configurazione tipica di tante micro, PMI e grandi aziende nazionali del settore metalmeccanico, edile) l’opzione Linux come sistema operativo aziendale primario diventa difficile se non impossibile da percorrere almeno in ambito desktop (anche se stanno arrivando sul mercato CAD nativi Linux di livello professionale basati su licenze commerciali). Cionondimeno esistono comunque dei cad (al solito più diffusi nel resto d’Europa) elettronici (PCB), elettrici e meccanici “2D/3D” interamente rilasciati sotto licenza libera (KiCad, QElectroTech, FreeCAD, QCAD, FreeCAD) già presenti nelle principali distribuzioni Linux (anche se le traduzioni in italiano dell’interfaccia utente non sono sempre complete e i software non gestiscono i formati proprietari dei disegni/schemi .dwg).

CAD che al momento (nonostante siano ancora carenti lato funzionalità) sono adottati principalmente da moderne ed avanzate società del settore automazione, elettronica, embedded, telecomunicazioni, aerospaziale più avezzi all’utilizzo di tecnologie emergenti.

Per non parlare dell’abitudinarietà (che è poi il grande vero ostacolo a qualsiasi cambiamento tecnologico/piano di innovazione nelle aziende) di molti utilizzatori di PC in difficoltà o semplicemente contrari ad apprendere l’uso di nuovi software (solitamente più semplici, minimalisti e “privi di numerose features superflue” rispetto alle controparti proprietarie-commerciali) e/o accettare cambiamenti dell’interfaccia utente (molti fornitori di tecnologie digitali a volte dimenticano che chi utilizza il computer solo per svolgere il proprio lavoro impiegatizio o manageriale in ufficio e/o in fabbrica, cantiere è quasi sempre molto conservativo e possono volerci mesi per abituarsi al nuovo strumento informatico).

D’altro canto è possibile intraprendere (progetto SMDATA Lab) una “parziale” migrazione a Linux (con le necessarie verifiche preliminari di fattibilità e compatibilità con l’hardware esistente), se l’organizzazione già opera con gestionali accessibili via web/cloud (oggi sempre più diffusi soprattutto nelle piccole realtà aziendali) ed il proprio ambito lavorativo è prevelentemente di coordinamento, oltre che commerciale e gestionale nel service industriale.

Se poi si lavora nella nicchia di mercato legata alle applicazioni scientifiche e di ricerca, oltre che nel settore informatico delle grandi corporations e startup tecnologiche la migrazione diventa ancora più fattibile visto che in questi comparti sono anni che si utilizzano desktop, portatili e server Linux (nel tempo sono addirittura nati oltre agli OEMs cinesi, dei produttori americani e tedeschi-olandesi di computer di fascia alta che installano nativamente il sistema operativo Linux realizzando avanzate workstations, per non parlare del crescente mercato degli smarthphones “degooglizzati” per migliorare la privacy/confidenzialità degli utenti).

Inoltre è sempre più facile imbattersi su internet nel comparto Industria 4.0 di aziende che usano infrastrutture ICT Linux per gestire le attività di progettazione, collaudo e service post-vendita delle complesse architetture informatiche industriali (OT & Embedded) dei sistemi “software-intensive” SCADA/ICS/IACS di supervisione, automazione, controllo (e relativa quadristica elettrica di comando, bordo macchina).

Ora, tornando invece al problema degli attacchi ransomware, a prescindere dalla tipologia di azienda e business, molte piccole organizzazioni possono essere comunque aiutate ad adottare parzialmente (in ambito SOHO Small Office/Home Office) sistemi Linux desktop, portatili e file server (meglio senza l’accesso al sempre più vulnerabile ed inaffidabile protocollo SMB) laddove si decida di dotarsi di una piccola infrastruttura informatica parallela di emergenza “Cyber Resilience & Digital Operations Survival Platforms” (realizzata con il ricondizionamento dei propri vecchi computer Windows obsoleti: XP, Vista, 7) da utilizzare nel caso si sia costretti dopo un attacco informatico a spegnere l’infrastruttura Windows principale.

Una soluzione minimale o meglio di “ingegneria/innovazione open-frugale avanzata” e/o “Maker” (che i grandi operatori della sicurezza informatica, potrebbero definire “di fortuna” o non professionale… anche se a dire il vero sono più di 20 anni che mi cimento ad aprire (anche durante viaggi-trasferte) su desktop Linux (utilizzati inizialmente solo come “Sand-Box”) allegati e-mail di phishing contenenti virus e malware di ogni genere senza incorrere in nessun particolare tipo di problema), ma che permette (in attesa che si ripristini l’infrastruttura informatica principale) di tenere in piedi almeno l’accesso al web, alla posta elettronica esterna, a fogli di calcolo e documenti privi di macro (chiaramente se presenti su un file server Linux di backup) e di poter continuare ad interagire parzialmente con i propri clienti, fornitori, oltre a un un numero limitato di colleghi/collaboratori (per dovere di cronaca ci sono numerose aziende che sono rimaste ferme e/o chiuse per settimane a causa dei ransomware).

Questo è possibile perchè il sistema operativo Linux è ad oggi poco diffuso negli uffici in modalità “on-premises” (soprattutto lato desktop, notebook, workstation) ma anche perchè intrinsicamente più “robusto”, “minimalista” ed “essenziale” (esistono studi sul legame tra complessità, sicurezza ed affidabilità di un sistema digitale) oltre che maggiormente rigoroso/rigido di Windows lato privilegi necessari all’installazione-esecuzione programmi e alla condivisione-trasferimento files. Il che lo rende oggi più immune dalle minacce informatiche più diffuse in particolare per i PC desktop (tipicamente software malevoli nascosti in e-mail, pagine web, PDF, immagini e documenti Office).

Un discorso diverso vale invece per i server Linux utilizzati in ambito web o cloud (a parte i costi sempre più importanti causati dall’attuale caro prezzi) che invece (complice l’ormai sempre più costosa, esasperata ed ingestibile complessità delle architetture cloud virtuali/containers implementate nei data centers) essendo altamente diffusi (e mal integrati-amministrati), sono da tempo vittima alla stregua dei sistemi Windows di tutta una serie di attacchi e vulnerabilità (affidarsi oggi alle sole infrastrutture cloud senza un backup fisico on-premises è sempre più rischioso). Per tale motivo sono in aumento le aziende (anche grandi gruppi high-tech che tengono ben custodito il loro know-how su macchine fisiche decentrate “on-premises” nelle loro sedi o data centers di prossimità fisicamente accessibili, stando ben lontani dal sempre più poroso e costoso cloud).

Esistono naturalmente numerose ed ottime soluzioni commerciali (quasi sempre estere) per la sicurezza-resilienza informatica, ma purtroppo la maggior parte non sono ad oggi alla portata di molte delle micro-piccole realtà aziendali, professionali ed artigiane con limitato potere di spesa, che sono invece quelle che il progetto SMDATA Lab intende servire.

Sostenibilità Digitale e Autonomia Tecnologica: Un Approccio Frugale e Innovativo per le Infrastrutture Informatiche Collaborative SOHO (Small Office/Home Office) nel Service Industriale

L’evoluzione del settore digitale ha portato a una crescente dipendenza dai grandi vendor hardware e software, limitando le più convenienti opportunità di autonomia tecnologica per le piccole organizzazioni di service industriale che si vogliono dotare di infrastrutture informatiche collaborative semplici e minimaliste (SOHO) dedicate alla raccolta, condivisione e analisi dati per il coordinamento e l’esecuzione di interventi in campo e in cantiere (field service & service post-vendita). Queste infrastrutture ICT (principalmente software CMS, CRM, Help-Desk/Ticket Management), spesso fruibili via web, sono essenziali per la gestione del ciclo di vita degli asset industriali (knowledge/life-cycle/asset management), inclusi storico interventi, guasti, modifiche, selezione ricambi, manualistica, schemi-disegni, configurazioni hardware, versioni software.

Un approccio basato su “product development-management” sostenibile e innovazione frugale avanzata consente di implementare soluzioni tecnologiche indipendenti, accessibili e durevoli, particolarmente rilevanti nel contesto dell’asset management & service di quadristica elettrica di comando-controllo, elettronica di potenza, bordo macchina e architetture digitali OT-Embedded per sistemi “software-intensive” SCADA/IACS/ICS utilizzati in applicazioni industriali basate su azionamenti, motori elettrici (BT) e attuatori. Inoltre, queste soluzioni migliorano l’indipendenza tecnologica e la resilienza operativa, garantendo maggiore sicurezza, stabilità e controllo (privacy & confidenzialità) sugli strumenti digitali utilizzati.

Il Concetto di Innovazione Frugale e Autonomia Tecnologica

L’innovazione frugale si basa sull’ottimizzazione delle risorse disponibili (in particolare in condizioni di cronica congiuntura economica non favorevole) per creare soluzioni efficaci, economiche e sostenibili. In ambito tecnologico, questo significa progettare e realizzare piccole infrastrutture informatiche collaborative (SOHO) che massimizzano l’efficienza con il minimo investimento di risorse finanziarie e materiali. Per le micro-piccole aziende che operano nel service industriale e nella gestione del ciclo di vita degli asset, l’autonomia tecnologica si fonda anche sulla capacità di implementare gestire (almeno in parte) soluzioni software e hardware senza dipendere da produttori di strumenti proprietari. L’uso di software libero (Open Source) e il riutilizzo di hardware obsoleto rappresentano strategie chiave per ridurre la dipendenza da aziende leader di mercato e altri fornitori di costose soluzioni gestionali. Questa indipendenza garantisce maggiore controllo sulle tecnologie adottate, una migliore gestione della sicurezza e una minore esposizione alle politiche commerciali imposte dai grandi vendor.

Riuso e Ricondizionamento dell’Hardware Obsoleto

Il settore tecnologico contribuisce in modo significativo all’inquinamento elettronico. Riusare hardware dismesso riduce la produzione di rifiuti elettronici e l’impatto ambientale della filiera produttiva. Per le piccole infrastrutture SOHO dedicate al service industriale, il processo di riuso dell’hardware include la pulizia e verifica dello stato dei dispositivi, la sostituzione di parti obsolete o difettose, l’installazione di sistemi operativi leggeri ed efficienti come Linux (in particolare Debian), la configurazione di software per la gestione delle attività operative, inclusi strumenti di ticketing, pianificazione degli interventi, gestione della documentazione tecnica (schemi, disegni, manualistica), storico guasti e analisi delle configurazioni hardware/software. Un caso concreto riguarda la trasformazione di PC e dispositivi mobili Windows (Vista, 7, 8, 10) obsoleti in macchine performanti con Linux, prolungandone la vita operativa di almeno cinque anni. Questa pratica si dimostra vantaggiosa per la gestione service interna. Inoltre, tale riconversione aumenta la resilienza operativa, poiché riduce il rischio di vulnerabilità derivanti dalla fine del supporto ufficiale dei sistemi operativi proprietari e garantisce continuità di servizio anche in condizioni critiche (tipicamente quando il resto dell’infastruttura ICT subisce attacchi ransomware).

Vantaggi e Sfide-Difficoltà dell’Approccio Proposto

L’uso di hardware ricondizionato e software Open Source permette alle infrastrutture SOHO del service industriale di ridurre significativamente i costi operativi, migliorare la sostenibilità ambientale e garantire un maggiore controllo sui dati aziendali (nuovamente privacy & confidenzialità). L’indipendenza tecnologica offre libertà di scelta nelle soluzioni adottate, evitando vincoli imposti dai vendor e riducendo il rischio di obsolescenza forzata. La resilienza operativa aumenta la stabilità e la sicurezza grazie alla riduzione della dipendenza da aggiornamenti proprietari. Tra le principali sfide (difficoltà nell’attuazione) si annoverano la resistenza al cambiamento da parte degli utenti, superabile con formazione e sensibilizzazione, e la compatibilità hardware (non sempre garantita), che la comunità Open Source lavora continuamente per migliorare.

L’adozione di un modello basato su innovazione frugale, riuso dell’hardware e software libero rappresenta una strategia sostenibile e accessibile per il futuro delle infrastrutture informatiche SOHO nel service industriale. Inoltre può rivoluzionare il modo in cui le piccole organizzazioni gestiscono la propria infrastruttura IT, rendendola più democratica, indipendente e rispettosa dell’ambiente. Inoltre, il vantaggio derivante dall’indipendenza tecnologica e dalla resilienza di queste soluzioni permette di creare infrastrutture più sicure e flessibili, capaci di adattarsi a contesti mutevoli senza dover subire imposizioni da parte di terzi.

P.S. so bene quindi quanto siano ogni giorno sempre più limitati (soprattutto oggi con le crisi strategiche ai confini con l’Europa ed il caro energia) i budget a disposizione per strutturarsi maggiormente (oltretutto con il fine pressante/immediato di trovare nuovi clienti e commesse per aumentare i profitti/ricavi e solo secondariamente di “innovare….” per migliorare l’efficienza interna della propria organizzazione aziendale).

Servono pertanto, si degli strumenti digitali di comunicazione e collaborazione aziendale (anche da remoto), oltre che di raccolta, condivisione ed analisi di dati ed informazioni per rimanere competitivi (velocizzando, snellendo ed automatizzando parte dei flussi operativi, oltre che le analisi quantitative di business), ma senza però affossare i già esigui budget disponibili.

Inoltre è bene ricordare che, laddove in passato sono stati fatti investimenti per digitalizzare, non c’è poi sempre stata in automatico la volontà da parte dei collaboratori di accogliere i cambiamenti introdotti (principalmente perchè lato informatico l’utilizzatore medio tende a rifiutare il cambiamento degli strumenti di lavoro quotidiano).

**I progetti-soluzioni-sistemi-tecnologie si basano sui principi “Efficient-Minimalism” & “KISS” (KEEP IT SIMPLE & SECURE)**

Il ruolo (e la forma mentis) del tecnico service di commissioning & startup e la differenza con il progettista di disciplina


Dal 2003 promuovo una maggior cultura e conoscenza sulle operations di service post-vendita/field service nazionale/internazionale in ambito industriale.

Quando si analizza la catena di valore all’interno di un progetto industriale complesso, emerge chiaramente una distinzione (evitando tassativamente confronti lato gerarchico-competenze) tra chi progetta e chi mette in servizio un sistema (equipaggiamento, macchinario, linea automatica, impianto).

Da una parte, il progettista di disciplina tipicamente l’ingegnere responsabile di una specifica area tecnica (meccanica, elettrica, strumentale, automazione, controllo, ecc.) che concentra (premetto che sto semplificando per far passare il concetto soprattutto ad un management non di estrazione tecnica-ingegneristica) la propria attività sulla definizione teorica, produttiva-realizzativa e documentale della soluzione (deliverable di pertinenza): dimensionamenti, calcoli, schemi, specifiche tecniche, compatibilità normative, standard di riferimento, misure di collaudo.

Dall’altra parte, il tecnico di commissioning (quasi sempre un perito con una forte preparazione-esperienza operativa nei collaudi) che si colloca in una posizione differente, che potremmo avvicinare lato approccio olistico (visione d’insieme del deliverable di progetto) a quella del systems engineer (tradizionalmente ricoperta negli uffici tecnici dal senior project engineer e direttore tecnico di stabilimento) descritto come colui che “comprende funzionalmente l’intero sistema (ripeto olisticamente) in azione nel suo ambiente operativo, mentre eroga la produzione/lavorazione richiesta, integrandosi, operando e cooperando con altri sistemi produttivi (oltre che con gli operatori, manutentori del cliente)”.

Questa differenza è cruciale. Il progettista di disciplina lavora in un ambiente principalmente teorico, manifatturiero e specialistico, in cui il focus è l’ottimizzazione, realizzazione, collaudo, consegna della singola parte del sistema (ovviamente integrabile con il resto delle altre parti che concorrono alla realizzazione del prodotto). Il tecnico di commissioning, invece, si trova in una condizione in cui il sistema non è più un modello e un prodotto stand-alone, ma un insieme di apparati reali che devono funzionare insieme (oltre che con il resto della base installata fornita o gia in funzione del cliente), in un contesto operativo vivo e complesso. La sua prospettiva non si limita alla singola disciplina, ma è sistemica: egli deve verificare che i sottosistemi si integrino realmente in maniera robusta, sicura ed affidabile, che (ad esempio) la logica di controllo risponda agli obiettivi produttivi, che i requisiti di sicurezza siano rispettati e che l’impianto sia in grado di erogare la performance-funzionalità (da specifica tecnica/contrattuale) prevista interagendo con il resto della base installata o con l’ambiente circostante (anche e soprattutto operatori, manutentori).

Un ulteriore elemento distintivo sta nella natura della responsabilità: il commissioning non è un atto puramente tecnico, ma anche operativo e gestionale. Significa affrontare in tempo reale problemi di integrazione, malfunzionamenti imprevisti (oltre alle immancabili dispute tecniche-commerciali-contrattuali che ne derivano), differenze tra quanto progettato e quanto costruito. L’approccio del tecnico di commissioning richiede quindi spirito critico, capacità di adattamento, competenze trasversali (es. negoziali) e, soprattutto, una visione olistica del sistema.

Se l’ingegnere progettista rappresenta la profondità della conoscenza verticale progettuale-costruttiva, normativa, il tecnico di commissioning incarna l’ampiezza della conoscenza funzionale-operativa-manutentiva, trasversale-orizzontale-multidisciplinare e pragmatica (non solo lato coerenza con paradigmi tipicamente ingegneristici, ma anche e soprattutto produttivi). Questa complementarità (che purtroppo è sempre meno compresa e quindi incentivata dagli OEMs) è ciò che consente al progetto di passare dalla carta alla realtà produttiva (non quella della fabbrica-stabilimento che l’ha realizzato, ma del cliente finale che l’ha acquistato e che lo utiliza per produrre): senza la progettazione specialistica non ci sarebbe la base ed il prodotto, ma senza il commissioning non ci sarebbe l’effettiva messa in servizio (aggiungo in sicurezza) del sistema.

In conclusione, l’approccio del tecnico di commissioning (anche quando proveniente da un background da perito) richiede la forma mentis del systems engineer (ripeto, ruolo ricoperto dal project engineer e direttore tecnico di stabilimento) proprio perché è chiamato a capire, governare e ottimizzare il sistema nel suo complesso, non nella teoria, realizzazione costruttiva, ma nel vivo (imprevedibilità, dinamicità, complessità) dell’operatività funzionale (life-cycle). È in questo equilibrio tra teoria e pratica, tra disciplina e sistema, che si realizza la vera riuscita di un progetto per un sistema, equipaggiamento, macchinario, impianto industriale.

Proprio per tale distinzione gli OEMs ed EPC (comparto capital equipment/impianti industriali) più illuminati e performanti, da anni si avvalgono per i ruoli di project & service managers non soltanto di ex progettisti e/o gestionali-commerciali, ma anche di ex professionisti del field service esperti nelle operazioni internazionali in campo-cantiere-nave-offshore (anche in heavily regulated countries, hazardous areas, harsh/hostile environments) su commessa (project-based) d’installazione-cablaggio elettrico, pre-commissioning, commissioning, start-up, test run, completion, handover, training, assistenza tecnica e manutenzione (minor-major shutdown/LTSA), ammodernamento (upgrade, retrofit, revamping, replacement, expansion).

Service Management Industriale : meno gerarchie, più sostanza


Dal 2003 promuovo una maggior cultura e conoscenza sulle operations di service post-vendita/field service nazionale/internazionale in ambito industriale.

In molti OEMs del comparto service (field/post-vendita) beni strumentali/impianti industriali (non solo grandi organizzazioni, ma anche PMI), si osserva da tempo una dinamica che rischia di apportare scarso valore aggiunto all’azienda e ai suoi clienti: la moltiplicazione di livelli manageriali (supervisori, coordinatori, gestori) che sono più formali che realmente efficaci.

Il risultato?

– titoli altisonanti negli organigrammi e biglietti da visita, responsabilità-trasversabilità (anche HSE) elevate, ma nel contempo autonomia ed autorità sempre più limitate

– poca autonomia decisionale in particolare lato prevenzione, miglioramento, potenziamento organizzativo-esecutivo, attuazione di lessons learned

– distanza crescente tra chi guida e chi lavora sul campo

Il paradosso più evidente riguarda anche la relazione con il cliente: che viene spesso gestita a distanza, non sempre per efficienza, ma per evitare talvolta fastidi-pressioni-solleciti (es. un cliente pressante, esigente o peggio insoddisfatto) e/o mitigare-diluire responsabilità, rischi esecutivi. In questo modo però si perde il contatto con la realtà (e qualità) del servizio (che rappresenta, il proprio ed altrui lavoro “di cura” da erogare al cliente in difficoltà !), con i problemi veri da risolvere, e soprattutto con le persone (clienti paganti e proprio personale in campo, che di frequente richiedono una immediata, continua estensiva attenzione-assistenza, talvolta complicata da importanti differenze di fuso orario tra la casa madre dell’OEM e il sito cliente dove sono in corso i lavori).

Questa riflessione è avvalorata da tutta una serie di ricerche personale (inserzioni di lavoro) che si leggono ad esempio su LinkedIn e che mi confermano una tendenza sempre più diffusa del comparto service industriale:

  • inserire tra la leadership aziendale e gli operativi uno strato crescente di middle e line managers (spesso ascrivibili ai lavori descritti dal celebre antropologo David Graeber, con inquadramenti contrattuali depotenziati e salari deflazionati rispetto ad un tradizionale manager d’ufficio/reparto), il cui ruolo-autorità principale non è tanto quello di migliorare “fattivamente-organicamente” l’organizzazione o l’esecuzione, quanto quello di rivestire una mera funzione “operativa-facilitatrice” in processi-strutture organizzative complesse (spesso sottodimensionate o inadeguate rispetto al carico e tipologia di lavoro tecnico-gestionale-esecutivo da sovraintendere), oltre alla mansione di interfaccia tra le figure apicali con i propri team operativi, ma soprattutto con il cliente (il tutto, ripeto, con basso grado di autorità, autonomia, ma elevata trasversabilità, reperibilità, responsabilità esecutiva, HSE, oltre che abnegazione nel raggiungimento degli obiettivi di performance economica)

Fa riflettere (imprenditorialmente parlando) rilevare quanto sia in aumento nelle aziende (grandi,medie, piccole) che erogano attività di field-service/post-vendita, l’attenzione (spesso spasmodica) organizzativa-funzionale-gerarchica atta ad evitare il contatto diretto tra la leadership e il cliente, (talvolta anche solo via telefono/e-mail), soprattutto quando quest’ultimo non è soddisfatto del servizio o prodotto ricevuto e innesca reclami.

Da lavoratore, ti rendi conto di appartenere a questa categoria di “responsabili supervisori, coordinatori, gestori depotenziati, d’interfacciamento” quando, nonostante il titolo manageriale altisonante (magari in inglese, così da far presa sui clienti, convinti di interloquire con “qualcuno di realmente autorevole”), non disponi di autorità gerarchica reale (il personale a tua disposizione non risponde direttamente a te, ma dipende e va quasi sempre autorizzato da altro responsabile di funzione), né di deleghe né del minimo potere o autonomia di spesa.

Inoltre sta via via emergendo la prassi d’incaricare per tali ruoli, sempre più impiegati amministrativi e/o generici (purchè laureati), mentre in passato almeno si vagliavano profili di ex specialisti tecnici (tradizionalmente periti industriali) sia lato formazione (meccanica, elettrotecnica, elettronica, etc.) che percorso lavorativo pregresso.

Ma non è tutto.

Questa stessa logica viene spesso traslata negli organigrammi “moderni” anche per altri “non nobili” scopi che spesso danneggiano l’azienda nel medio lungo termine.

Mi riferisco al creare multilivelli gerarchici non tanto per prevenire problematiche o gestire meglio i rischi, ma per diluire le responsabilità in caso di crisi operative (escalations, claims, penalties, back-charges, liquidated-damages e/o peggio sinistri).

Credo che qualunque imprenditore concordi con me che sia tempo di riportare al centro la sostanza (ed il coraggio di fare il manager, director, officer fino in fondo senza troppi scudi spesso solo di “carta”):

  • meno filtri gerarchici e burocrazia da organigramma
  • più responsabilità reale-diretta e distribuita dove realmente serve (all’azienda, ma anche al cliente)
  • più dialogo diretto, sia verso il team che verso il cliente

Il valore del service industriale si misura dall’esecuzione e risultato sul campo, non dal numero di fatture (e relativi ricavi, profitti) comunque pagate da un cliente insoddisfatto (che però in futuro non acquisterà più da noi), ma soprattutto non in organigrammi costruiti per proteggere anziché guidare.

Serve più coraggio manageriale. Meno show, più leadership vera. Ma soprattutto non basta più comandare dall’alto (con l’attenzione volta principalmente all’estrazione di “Profits ed Executive Bonus”); serve invece essere coinvolti assieme a chi opera dal basso (mercato) e si interfaccia quotidianament con i clienti.

P.S. questo articolo declinato al service industriale non è l’ennesimo “sfogo del lavoratore”, ma si fonda ed ispira al classico ed illuminato manuale di management (La Piramide Rovesciata) scritto dall’ex presidente della SAS (compagnia aerea di bandiera scandinava) Jan Carlzon (il quale negli anni 80 si assume la guida di un’azienda in crisi, con il morale dei dipendenti basso, una quota di mercato a rischio e numerosi conti in rosso, e nel giro di un solo anno la trasforma nell’impresa leader in Europa)

Il valore insostituibile dei tecnici di field service come ambasciatori del service post vendita industriale

Nel comparto altamente competitivo delle applicazioni per l’automazione industriale e dei beni strumentali industriali, dove innovazione, qualità e affidabilità dei prodotti richiedono ingenti e continui sforzi economici, (nonostante i volumi di fatturato e le marginalità siano sempre più sotto pressione) il service post vendita assume un ruolo strategico di crescente importanza.

Oltre alla fornitura di componenti, sistemi, equipaggiamenti, macchinari e attrezzature all’avanguardia, le aziende “lungimiranti” si stanno concentrando sempre di più sulla creazione di relazioni di fiducia e sulla soddisfazione del cliente a lungo termine (obiettivo che con la sola propria forza vendita tradizionale sta diventando sempre più difficile da attuare). In questo contesto, i tecnici di field service sono diventati un prezioso punto di riferimento e, al tempo stesso buoni venditori di contratti service e ricambistica.

In questo post, esplorerò sinteticamente (il tema è molto più ampio, complesso ed articolato) il motivo per cui i tecnici di field service sono fondamentali anche per il “successo commerciale” del servizio post vendita industriale.

I tecnici di field service (in particolare quelli senior) rappresentano la perfetta combinazione di conoscenze tecniche approfondite e capacità di comunicazione eccezionali. Sono gli esperti sul campo che conoscono a fondo i prodotti, tecnologie dell’OEM per il quale da anni lavorano, ma soprattutto gli ambiti di utilizzo (e i relativi limiti-problemi) presso i clienti finali e possono risolvere efficacemente molti dei loro problemi funzionali, manutentivi e produttivi. Questa competenza tecnica consente loro di fornire un supporto ad elevato valore aggiunto, perchè mirato, rapido ed efficiente, facendo risparmiare tempo e denaro ai clienti (o in certi casi aumentando anche la produttività-affidabilità delle linee-processi produttivi/manifatturieri).

Grazie alla loro vasta esperienza e alla familiarità con i prodotti supportati in campo, i tecnici di field service sono in grado di promuovere, illustrare in modo convincente i benefici dei contratti per i “servizi tecnici” oltre all’acquisto della ricambistica originale.

La fiducia è un elemento essenziale in qualsiasi relazione commerciale di successo, e i tecnici di field service più capaci e performanti sono soliti guadagnarsi la fiducia dei clienti attraverso la loro professionalità, la competenza e l’impegno per una risoluzione rapida dei problemi (sarà capitato a tutti i gestori del post-vendita sentirsi richiedere dal cliente sempre e solo quel tecnico particolare per ogni intervento). Poiché lavorano a stretto contatto con i clienti sul campo (a volte per settimane o mesi come nel caso delle messe in servizio più complesse), sviluppano relazioni personali e instaurano un rapporto di fiducia, diventando così i migliori ambasciatori degli OEMs. Questa fiducia è fondamentale per convincere i clienti ad adottare contratti di service a lungo termine e a preferire i prodotti di ricambio originali rispetto a quelli di terze parti.

Questo perchè i tecnici di field service sono i primi a rendersi conto dei vantaggi dei contratti di service a lungo termine e dell’utilizzo di ricambi originali. Essendo direttamente coinvolti nella messa in servizio, ricerca guasti, manutenzione e in certi casi anche nella riparazione dei prodotti. Sono pertanto i primi testimoni delle conseguenze di una manutenzione insufficiente o di ricambi di bassa qualità. Questa consapevolezza li porta a promuovere attivamente i contratti di service e l’utilizzo dei ricambi originali come una soluzione preventiva per evitare costosi guasti o interruzioni della produzione (oltre a ridurre i loro viaggi per interventi in emergenza, che sono quasi sempre un fastidio per lo stesso tecnico di field…..). La loro influenza sulle decisioni di acquisto dei clienti è inestimabile, poiché possono fornire testimonianze concrete dei benefici tangibili derivanti dall’adesione a contratti di service estesi e strutturati.

Per garantire che i tecnici di field service siano costantemente all’avanguardia e in grado di fornire il miglior supporto possibile ai clienti, è però necessario investire in un programma di formazione continua e raccogliere il loro prezioso feed-back dal campo, anche e soprattutto quando l’asset avviato, manutenuto presenta ricorrenti-cronici difetti funzionali (suggerisco sempre di farli accedere al CRM aziendale in modo da integrare e scambiare il loro know-how con il team commerciale service) . La tecnologia e le innovazioni industriali avanzano rapidamente, e i tecnici devono essere preparati ad affrontare le sfide emergenti. La formazione continua non solo li mantiene aggiornati sulle ultime tecnologie, ma migliora anche le loro competenze di vendita e comunicazione. Questo li abilita e li rende maggiormente sicuri nel promuovere in modo convincente il service e la ricambistica originale come parte integrante del pacchetto di assistenza post vendita.

Nella moderna strategia di service post vendita industriale, i tecnici di field service ricoprono un ruolo cruciale come ambasciatori del marchio (l’OEM tradizionalmente prodotto-centrico deve comprendere che al mercato non solo è più sufficiente mostrare capacità ingegneristica e produttiva, se poi il service è sotto dimensionato o peggio inadeguato). La competenza tecnica del reparto service, la fiducia guadagnata attraverso relazioni di lungo termine con i clienti, la promozione attiva dei contratti di service e l’utilizzo della ricambistica originale sono fattori determinanti per il successo a lungo termine delle aziende produttrici di beni strumentali industriali.

Riconosciamo pertanto il valore insostituibile dei tecnici di field service e continuiamo a investire nella loro formazione (anche di stampo commerciale) e sviluppo, poiché questo equivale ad aumentare la soddisfazione dei clienti e il successo del business.

Safety-First!

Di tanto in tanto, in qualche post sul service industriale, mi piace lasciare qualche piccolo ‘Tips’ lato HSE (chi ha lavorato in particolare nelle commesse USA/Japan sarà abituato sin dagli anni 90 ai famosi “Workplace/Safety-First Tips” di fine riunione)

Per non incorrere in operazioni-manovre potenzialmente rischiose in campo-cantiere, le aziende devono sempre affidarsi al vecchio adagio “ad ognuno il proprio mestiere” evitando di deputare (per urgenze e/o savings economici) tecnici di field service con prevalente esperienza-competenza nel digitale (discipline elettroniche, elettriche-segnali, sistemistiche, software) ad operazioni di esecuzione, coordinamento, supervisione (ricoprendo così senza i necessari requisiti di idoneità anche i delicati ruoli di preposto) per lavori di montaggio (dove sono richiesti muletti, carri ponte, gru, PLE) e cablaggi di potenza.

**P.S. leggendo alcuni annunci di lavoro su LinkedIn per elettronici-meccatronici-elettromeccanici industriali junior il mercato del lavoro sembra purtroppo (lato HSE e qualità del lavoro) andare nella direzione opposta, visto che si ricercano anche singoli-giovani tecnici con competenze unificate da montatore-aggiustatore meccanico, elettricista cablatore, sistemista-programmatore PLC. Tali professionisti naturalmente esistono, sono rari e sono il più delle volte dei senior con una decina d’anni di trasferte in campo-cantiere e/o attività manutentiva di fabbrica-impianto alle spalle

Stesso discorso con i ruoli al contrario. E’ potenzialmente rischioso avvalersi di esperti montatori meccanici e cablatori elettrici incaricandoli (senza le necessarie competenze) di effettuare, coordinare, supervisionare lavori (che presuppongono l’energizzazione dei quadri elettrici ed il movimento manuale anche parziale di organi automatici degli equipaggiamenti) di collaudo, pre-commissioning, commissioning, assistenze tecniche, manutenzioni specialistiche.

**P.S. anche se noto a tutti gli operatori dell’industria, ricordo che tra bassa tensione (BT) e media tensione (MT) non c’è diretta-immediata intercambiabilità professionale (in particolare nel passaggio tra BT e MT) se non dietro estensivo specifico addestramento teorico-pratico ed idonea esperienza in affiancamento

Per i non addetti ai lavori, i tecnici di field service (i famosi trasfertisti operai, tecnici, periti, ingegneri) non sono figure tecniche intercambiabili-secondarie-marginali, ma seri e validi professionisti (dotati spesso di una specifica specializzazione/verticalità) che per operare autonomamente ed in solitario (spesso dall’altra parte del pianeta, in nazioni disagiate e senza il supporto di prossimità dell’azienda per la quale lavorano), hanno saputo negli anni apprendere (quasi sempre On-the-Job), distillare e concentrare le necessarie competenze tecniche-ingegneristiche multi-disciplinari necessarie a collaudare, avviare, riparare, manutenere complessi sistemi-equipaggiamenti progettati da diversi uffici d’ingegneria applicativa (meccanica, elettrica, elettromeccanica, elettronica, sistemi, R&D, etc.)

Come affrontare per le organizzazioni di service post-vendita industriale il problema dell’elevato turnover di personale nel field service

Tutti i reparti di service post-vendita industriale hanno appreso da pregresse esperienze che i dipendenti addetti agli interventi di field service che forniscono il miglior servizio tecnico in campo, cantiere, remoto (e-mail, telefono, tele-assistenza, etc.) possono quasi sempre scegliere tra le migliori opportunità lavorative presenti sul mercato, e che più la squadra di field service è efficiente, più è vulnerabile alle lusinghe (potenziali nuove opportunità di lavoro) offerte dalla concorrenza o dallo stesso cliente finale (a volte lo si capisce quando iniziano a richiedere solo e sempre quel particolare tecnico per ogni intervento).

Per evitare l’elevato turnover tipico del comparto i reparti post-vendita “illuminati” rendono la gestione del talento una priorità assoluta e progettano iniziative per reclutare, formare e trattenere i loro manager e tecnici di “Field”.

Nel service per componenti, sistemi, equipaggiamenti, macchinari, impianti industriali complessi e tecnologicamente avanzati (per non parlare di quelli software-intensive), dove sono richiesti skills rari oltre ad una vasta e continua esperienza sul campo non è quasi mai vero l’assunto del tutti sono sostituibili e nessuno è indispensabile.

Per mantenere i veri talenti, i migliori reparti di service progettano percorsi di carriera interessanti e gratificanti e offrono una varietà di incentivi finanziari e non finanziari. Inoltre, sviluppano processi chiari per la pianificazione del personale, la gestione del talento e il reclutamento, e creano piani di carriera flessibili e a lungo termine in particolare per i tecnici di field service. Prevedendo inoltre che dopo una decina di anni non siano più (probabilmente) disponibili per operare sempre all’estero in campo, cantiere e che desiderino ambire ad un nuovo qualificato ruolo in sede presso la casa madre.

In Italia si sono persi negli anni un numero molto elevato di tecnici altamente specializzati ed esperti, che stanchi di operare perennemente in reperibilità, trasferta (anche i trasfertisti hanno o vogliono mettere su famiglia…) sono stati allontanati dalle aziende per le quali hanno lavorato, obbligandoli a reiventarsi in ruoli che a volte nulla hanno a che vedere con il loro pregresso iter professionale o a trasferirsi con tutta la famiglia come expat per lavorare nelle fabbriche-impianti che avevano precedentemente avviato e manutenuto per anni.

Ricordiamoci (se vogliamo fare realmente service post-vendita industriale) che una squadra di field service talentuosa migliora l’efficienza del reparto, aumenta la qualità e “sicurezza sul lavoro” durante gli interventi, riduce i costi operativi/organizzativi e aumenta il fatturato (e relativi margini, profitti) stimolando nel contempo una continua domanda per tutte le linee di service offerte dall’OEM (il field service è a mio avviso da sempre il miglior partner dell’ufficio commerciale).

Inoltre e’ comprovato che per molti paesi, le differenze nella penetrazione del business service/post-vendita che si possono osservare per un OEM dipendono più dalla qualità delle squadre di field service locali/di prossimità che da qualsiasi altro fattore.

Concludo che costruire e trattenere il talento del field service non è solo un problema di risorse umane da risolvere tatticamente, ma è un piano strategico che proietta l’azienda avanti rispetto alla concorrenza.

P.S. consiglio sempre alle organizzazioni di impegnarsi nell’approfondimento della nuova ISO 31030 (travel risk management) oltre che della più generale ISO 31000 (in combinazione con la OSHAS 18001 ed ISO 45001) anche e soprattutto per i lavoratori trasfertisti in solitario

Ma Stiamo Realmente Facendo Service Post-Vendita Industriale ??

Dal 2003 promuovo una maggior cultura e conoscenza generale sulle operations di service post-vendita nazionale/internazionale in ambito industriale.

Mi piace ogni tanto andare contro corrente, lontano dal sensazionalismo di molte analisi di mercato e studi accademici che si trovano su internet (fin troppo ottimistiche rispetto alla quotidiana realtà lavorativa) inserendo nei nostri case-history, anche esempi di prassi operative di service da evitare, oltre alla descrizione di alcune criticità tipiche del comparto, in particolare nelle medie e grandi aziende dove inizia a diventare elevato il numero di clienti, stakeholders, transazioni ed escalations (un termine elegante e professionale per indicare dagli addetti ai lavori “emergenze e crisi”) da gestire.

E’ sufficiente navigare su internet e visitare i vari siti web aziendali per realizzare che ormai ogni impresa, dal piccolo rivenditore industriale al grande OEM appartenente alla multinazionale di turno, è ormai da anni dotato di un’efficiente e strutturata organizzazione (magari H24/365) per il service post-vendita industriale. Ma se andiamo a grattare via lo spesso strato di marketing, scopriamo che in molte realtà le cose sono ben diverse e ancora ferme ai modelli organizzativi degli inizi anni 90 (quando per la prima volta si è iniziato a parlare di service nel comparto industriale e le prime organizzazioni post-vendita minimali venivano denominante uffici servizi assistenza tecnica “SAT”).

Tralasciando le organizzazioni dove il service post-vendita non è ancora diventato un centro di profitto (perchè magari si teme di perdere i clienti a fargli pagare oltre al prodotto anche l’assistenza…) ed è costituito essenzialmente da un servizio “spot” di assistenza in campo operato da personale interno di produzione (gestito solitamente dal commerciale), oltre che dal supporto telefonico erogato direttamente dall’impiegato di turno dell’ufficio tecnico (e fuori dall’orario lavorativo direttamente dal titolare), concentriamo la nostra analisi invece sulle aziende con volumi di affari “Service” importanti (almeno come percentuale di fatturato).

E’ sempre stata mia prassi (in passato ante pandemia), prima di accettare ogni nuovo incarico fare una fotografia ed analizzare il reale stato strutturale, organizzativo e di performance dell’organizzazione di service post-vendita industriale che andavo a supportare con i miei interventi consulenziali ed esecutivi. Tra le varie analisi una delle più importanti è il concorso delle varie linee di servizi (commercializzabili) alla generazione del volume d’affari post-vendita.

Sembra anomalo (se confrontato con quello che si legge sensazionalisticamente su internet), ma nella realtà molte organizzazioni (piccole e grandi) che credono di operare da anni con successo ed elevati volumi e marginalità nel service sono in realtà ancora semplici estensioni del tradizionale business basato sulla vendita di nuovi prodotti (commercializzazione).

Questo perchè il grosso del giro d’affari scaturisce principalmente da attività di installazione, montaggio, cablaggio, messa in servizio, avviamento e vendita ricambi (principalmente) per “nuovi” sistemi, equipaggiamenti, macchinari, mentre solo una minima parte è generata dallo sfuttamento dell’intero ciclo di vita della propria “vecchia” base di installato e quindi da un portfolio “contratti strutturati” per prestazioni manutentive complesse in campo (field service/lifecycle) e progetti di ammodernamento (upgrade, retrofit, revamping, replacement, expansion).

Tutto ciò si traduce che quando la produzione ha un calo del lavoro (fenomeno molto frequente negli ultimi anni a causa del susseguirsi di varie crisi internazionali) e quindi una diminuzione del fatturato per nuovi prodotti lo stesso avviene lato vendita di servizi, facendo venire meno l’effetto calmierante (cuscinetto) che il service post-vendita dovrebbe anche ricoprire nei momenti di congiuntura economica negativa.

E’ innegabile che i fatturati dei montaggi, cablaggi, messe in servizio, avviamenti possano essere in alcuni casi considerevoli e con marginalità almeno doppie rispetto alla vendita di prodotto e possano pertanto divenire strutturali al raggiungimento di obiettivi economici di performance dei reparti service, oltre che fonte di reinvestimento (nelle aziende illuminate) per accrescerne l’organizzazione. Cionondimeno introducono una distorsione sui reali obiettivi dei business per il post-vendita che è invece quello di sfruttare continuativamente opportunità (anche minime) di fatturato e raccolta di profitti per l’intero ciclo di vita del prodotto (a meno che non sia più conveniente e redditizio sostituirlo col nuovo).

Esiste poi il problema della “complessità tecnica” che contraddistingue le messe in servizio e gli avviamenti, perchè il prodotto va fatto funzionare per la prima volta (con tutte le incognite del caso) e potrebbe (anzi sicuramente) presentare criticità progettuali inaspettate o essere carente (capita molto più spesso di quanto si crede) di funzionalità e specifiche contrattuali perchè oggetto di recenti varianti in corso d’opera che non è stato possibile testare completamente (tipico nelle produzioni di equipaggiamenti/macchinari ETO/One-of-a-Kind e sistemi d’automazione discreti/elettromeccanici/meccatronici con una preponderante componente “software-intensive”).

Il fatto poi che la messa in servizio, avviamento non sia più gestita dal reparto di progettazione/produzione introduce delle latenze operative ed organizzative tra il service (che non può essere a conoscenza di tutto l’excursus progettuale, magari della durata di diversi mesi), il team di ingegneria interno (che si ritrova ora magari completamente ed urgentemente impegnato su un nuovo progetto) ed il cliente che si aspetta velocità e rapidità di esecuzione nell’affrontare ogni problematica sul campo per partire/ripartire con la produzione.

Un’altra componente che declassa a semplice ufficio di assistenza tecnica (stile anni 90) molte delle organizzazioni di service post-vendita industriale di molte aziende nazionali è l’incapacità di operare fuori dall’orario lavorativo o durante le festività con quasi gli stessi livelli di performance offerti nei normali orari di lavoro settimanali.

Questo può essere (forse) normale per i clienti in Europa, accettabile per chi opera nelle aree degli emirati, medio oriente (la domenica qui si lavora e si riposa il venerdì), ma non è più sostenibile quando la differenza di fuso orario (oltre che dei periodi di ferie e festività) inizia a farsi importante (Stati Uniti, America Latina, India ed Estremo Oriente).

In questi casi molte delle organizzazioni service cessano momentaneamente di performare adeguatamente relegando a pochi volenterosi tecnici progettisti e venditori/gestori/operatori che da soli in ufficio, a casa il week-end o comunque principalmente fuori dall’orario lavorativo si ritrovano a tamponare telefonicamente o per e-mail il temporaneo depotenziamento dell’organizzazione per la quale lavorano. Anche e soprattutto per tali motivi di carente sincronizzazione oraria-lavorativa serve sempre pensare allo sviluppo di service centers di prossimità ai clienti (almeno per i più importanti).

La stessa criticità è poi ancor più amplificata per i tecnici trasfertisti (field service engineers) e i vari gestori-coordinatori “expat/resident” sul campo che devono pazientare (a volte facendo fronte a grandi pressioni dei clienti) in attesa della riapertura degli uffici in sede per essere nuovamente supportati tecnicamente e logisticamente.

Esempi dal Campo:

** La gestione del service industriale reattiva travestita da preventiva **

E’ risaputo che gli end-user (i clienti del comparto service industriale) sono diventati molto più esperti e attenti ai costi.
Oggi molti dei responsabili di impianto, stabilimento e manutenzione (che sono poi gli interlocutori principali per chi si occupa delle vendite di servizi tecnici) vedono il service industriale moderno offerto dai fornitori come indispensabile, anche se a volte eccessivamente costoso-pervasivo e che (se non regolamentato) alla lunga potrebbe esternalizzare parte delle loro mansioni, pertanto tendono (comprensibilmente) a mostrare interesse solo per un numero limitato e mirato di servizi sufficienti per essere supportati principalmente nelle situazioni più complesse.

Uno dei problemi ricorrenti e principali del cliente è quella di limitare gli interventi in emergenza dovuti a guasti improvvisi della base d’installato.

Questa esigenza ha innescato negli anni da parte dei fornitori di beni strumentali industriali la messa a punto di contratti di manutenzione preventiva (ancora prima della predittiva), ma spesso è solo washing in salsa marketing (realizzare una patinata brochure sugli innumerevoli servizi post-vendita da proporre al cliente richiede una settimana, ma mettere in piedi un efficiente-strutturata-esperta organizzazione per erogarli sistematicamente h24 richiede mesi se non anni..) o meglio si tratta della tradizionale gestione service reattiva su chiamata (in emergenza) travestita da preventiva.

E’ vero sul contratto c’è scritto “manutenzione preventiva”.
Ma nella pratica? Si interviene in campo principalmente quando qualcosa si guasta.
Ripristinato il componente-sistema-macchinario il tecnico field service redige un report minimale e poi nessun feedback dell’ufficio tecnico del fornitore service, nessuna proposta migliorativa al cliente.
Solo: “È tutto a posto e se non lo è, monitoreremo (che per mia esperienza dal 1993 vuol dire di sovente non fare nulla e attendere sperando che il problema non si ripresenti)”

Ma il cliente non vuole solo un “OK”.
Vuole sapere cosa è successo, come evitarlo in futuro, e che impatto ha avuto (spesso ha anche pagato anticipatamente per la redazione di una RCA Root Cause Analysis).
Ma alla fine raramente qualcuno analizza i dati del report e delle misure in campo e/o propone un fermo programmato di approfondimento.

Il service non è solo intervento in campo, prestazione tecnica. È anche comunicazione.
E se il tecnico di field service ed i progettisti dell’ingegneria non chiudono il cerchio, stanno lasciando valore sul campo.
Ogni volta.

Il cliente non si lamenta… ancora.
Ma quando avrà un fermo produzione serio, si chiederà:
“Ma allora a cosa serviva questo contratto?”
E lì perdi tutto: fiducia, rinnovo, reputazione.
La manutenzione preventiva si fa prima, non dopo.
Serve metodo.
Serve visione.
Serve cultura.

Pro & Contro del Service Post-Vendita Industriale

Dal 2003 promuovo una maggior cultura e conoscenza sulle operations di service post-vendita/field service nazionale/internazionale in ambito industriale.

Mi piace ogni tanto andare contro corrente, lontano dal sensazionalismo di molte analisi di mercato e studi accademici che si trovano su internet (fin troppo ottimistiche rispetto alla quotidiana realtà lavorativa) inserendo nei miei case-history, anche esempi di prassi operative di service da evitare, oltre alla descrizione di alcune criticità tipiche del comparto, in particolare nelle medie e grandi aziende dove inizia a diventare elevato il numero di clienti, stakeholders, transazioni ed escalations (un termine elegante e professionale per indicare dagli addetti ai lavori “emergenze e crisi”) da gestire.

Il business dei contratti di service post-vendita industriale (soprattutto in tempi di forte concorrenza e continua decrescita economica) rappresenta in via generale (nonostante le numerose difficoltà per attuarla) la miglior strategia commerciale per integrare sensibilmente il proprio fatturato con nuove linee di ricavi, accrescere i margini e migliorare la soddisfazione del cliente, fidelizzandolo in vista di nuovi forniture e progetti.

I vantaggi sono molteplici, perchè l’offerta di service post-vendita industriale (anche se limitata nei volumi di fatturato) se eseguita integralmente, professionalmente e fedelmente secondo le aspettative della clientela, rimane comunque maggiormente reddittiva rispetto alla vendita del prodotto, scalabile nel medio termine, fortemente personalizzabile, meno soggetta alle competizioni sul prezzo, difficilmente replicabile (se basata sul capitale di conoscenze tecniche e di utilizzo del prodotto) e soprattutto sostenibile, durevole nel lungo periodo oltre che programmabile in funzione della dimensione della propria base installata.

Esiste inoltre un vantaggio commerciale non indifferente perchè la relazione di service genera quasi sempre un contatto molto più stretto e continuativo con il cliente (e con i numerosi attori della sua organizzazione, oltre che in taluni casi con i suoi stessi clienti finali) rispetto alle tradizionali relazioni basate sulla vendita di prodotto, il più delle volte limitate alla sola trattativa commerciale (oltre che quasi sempre relegata al solo personale degli acquisti e progettazione). In questo settore i venditori più performanti sono il più delle volte anche gli ex gestori dei contratti (after-sales project & service managers oltre ai tecnici di field service) che hanno deciso di abbracciare il mondo delle vendite.

Sappiamo anche che non è semplice, rapido ed economico attuare tale strategia (in particolare nei periodi con forti limitazioni agli spostamenti, viaggi ed incontri di business) dal momento che la stessa richiede un drastico cambio di cultura, organizzazione e competenza aziendale. Innanzitutto vendere servizi è completamente diverso dal vendere prodotti (in particolare per chi da anni è abituato a vendere, regalando sistematicamente il servizio “post-vendita” come concessione supplementare o extra sconto nelle trattative commerciali), inoltre una semplice attività di service (se mal gestita) può impattare il più delle volte in maniera rapida, inaspettata e trasversale su tutta l’organizzazione aziendale, oltre che scalare verticalmente sino ai vertici dell’azienda (escalations).

Anche le aziende più strutturate che da anni lavorano con centri di profitto basati sul service industriale vivono di frequente un intensa tensione tra le business unit di progettazione-produzione prodotto (commercializzazione) e post-vendita (after-sales, aftermarket, field-service). Principalmente per dispute sulle disponibilità delle risorse trasversali condivise (solitamente magazzino, spedizioni, ingegneria e produzione) o per i vicendevoli scarichi di garanzie, costi e oneri vari a difesa del proprio conto economico di commessa e reparto.

Purtroppo molte imprese hanno nel tempo sottovalutato l’impatto culturale, commerciale ed organizzativo del service post-vendita moderno (oggi sempre più nuova fonte di ricavi e non più centro di costo come in passato) relegando ad un numero sottodimensionato di coordinatori, operatori front-office, back-office e tecnici di assistenza (field service engineers) la gestione di richieste cliente e l’esecuzione di complessi interventi in campo. Ritrovandosi a volte con l’organizzazione service isolata dal resto dell’azienda (che continua ad operare secondo i tradizionali paradigmi prodotto-centrici ) e con l’attenzione rivolta eccessivamente alla performance economica (generazione di fatturato e salvaguardia delle marginalità), il più delle volte a discapito della soddisfazione cliente.

Così facendo queste imprese commettono il tipico errore di chi vuole operare nel business del service post-vendita (ma ne farebbero probabilmente a meno), dimenticando che il servizio rappresenta a tutti gli effetti una vetrina ed un biglietto da visita della propria attività, oggi ancor più della propria forza commerciale, della capacità produttiva o delle caratteristiche e funzionalità avanzate di prodotto.

Con il risultato di deteriorare nel tempo i rapporti con i clienti (per non parlare del continuo avvicendamento del personale addetto) a causa dell’insoddisfacente livello di servizio offerto, danneggiando nel contempo l’immagine globale della propria azienda e prodotto, con conseguente calo degli ordinativi per nuove forniture.

P.S. il tema del rischio reputazionale aziendale (un tipico indicatore è il non riuscire a rimanere a lungo all’interno delle vendor-list dei propri clienti a causa della carenza di risorse chiave per operare e/o per il decadimento qualitatitivo del proprio prodotto e servizio) è stato ripreso in Italia dalla recente normativa sulla crisi d’impresa e sugli adeguati assetti organizzativi che introduce delle apposite check-list, oltre ad interessanti KPI per valutare l’operato organizzativo-esecutivo-gestionale-finanziario di un’azienda (oltre a tutta una serie di utili warning per intercettarne anticipatamente l’eventuale entrata in stato di crisi).

Non Tutte le Linee di Service Industriale sono Redditizie

In anni di pregressa attività lavorativa ho avuto modo di specializzarmi nella vendita, gestione, esecuzione di complessi contratti e progetti (nazionali/esteri) su commessa nel service post-vendita industriale in particolare lato beni strumentali/sistemi “software-intensive” (customer care, site/field, after-sales, aftermarket, lifecycle) operando sempre con una forte attenzione rivolta a ridurre ed evitare i rischi e le criticità tipiche del comparto, in particolare in quest’ultimo periodo che ha visto la nascita di un nuovo paradigma di business (ancora scarsamente diffuso in Italia) per gli OEMs basato sulla servitizzazione manifatturiera.

Un modello innovativo già in uso da più di un decennio nel comparto software/hardware dei moderni sistemi informativi (basato sinteticamente su un meccanismo di sottoscrizione “paghi per l’uso” con service post-vendita incluso nel canone) ma potenzialmente rischioso per i fornitori di beni strumentali industriali che ad oggi non sono stati sistematicamente in grado di vendere e gestire profittevolmente il proprio service post-vendita basato ancora su pratiche commerciali e contrattuali più tradizionali basate su contabilizzazioni economiche principalmente a misura (soprattutto per le attività in campo internazionali) e solo in parte a corpo.

E’ risaputo che gli end-user sono diventati molto più esperti e attenti ai costi. Oggi molti dei responsabili di impianto, stabilimento e manutenzione (che sono poi gli interlocutori principali per chi si occupa delle vendite di servizi tecnici) vedono il service industriale moderno offerto dai fornitori come indispensabile, anche se a volte eccessivamente costoso-pervasivo e che (se non regolamentato) alla lunga potrebbe esternalizzare parte delle loro mansioni, pertanto tendono (comprensibilmente) a mostrare interesse solo per un numero limitato e mirato di servizi sufficienti per essere supportati principalmente nelle situazioni più complesse e/o di emergenza.

Per tale motivo (pur consapevoli di veder rigettata l’offerta) è necessario presentarsi dal potenziale cliente (end-user) sempre e solo con una proposta commerciale di valore ed integrata (stando ben attenti a valutare le richieste di estensioni di garanzia su componenti, sistemi, equipaggiamenti e macchinari datati), senza scorporare o frammentare (anche in termini economici) la linea di servizio offerta, pena il rischio di finire relegati nella sola vendita (anti economica) di singole ma dispendiose attività delle quali elenco una piccolissima parte a titolo di esempio:

  • ricerca di un numero limitato e mirato di componenti commerciali difettosi fuori produzione (il business del service industriale per essere sostenibile deve essere in grado di vendere anche set mirati e completi di ricambi, lasciando al mercato dei broker di materiale le ricerche mirate di singoli componenti commerciali sciolti ed osboleti)
  • incarichi per la risoluzione “spot” di singole e croniche problematiche tecniche (senza far sottoscrivere un accordo di assistenza e manutenzione almeno annuale)
  • offerta gratuita di supporto telefonico ed e-mail (in orari di ufficio) senza che venga sottoscritto un accordo di assistenza e manutenzione (ritenendo erroneamente che il semplice servizio e-mail/telefonico vada fatto pagare solo fuori dall’orario lavorativo, salvo poi scoprire che il cliente “furbetto” sarà da li in poi libero di impegnare-monopolizzare (senza limiti di tempo) al telefono/e-mail il personale tecnico/commerciale ogni qualvolta avrà un problema (il più delle volte banale), sottraendolo magari da altre attività di supporto ai clienti paganti con contratto)
  • avvantaggiarsi commercialmente comunicando al cliente oltre ai canali telefonici/e-mail dedicati al service anche i riferimenti di contatto diretti dei propri responsabili aziendali. Prassi che servirà solo a tagliar fuori l’organizzazione di service post-vendita preposta ed innescare continue e caotiche escalations interne (e relative disfunzionalità organizzative nel breve-medio termine anche per tutti gli altri interventi di field service in preparazione e/o già in corso)
  • disponibilità all’invio “spot” di tecnici in campo dietro semplice richiesta del cliente (fatturato a misura/consuntivo) senza che venga anche sottoscritto un contratto di reperibilità, assistenza e manutenzione per i futuri interventi (fondamentale per coprire i costi di supporto-analisi tecnica, lifecycle-management/RCA specifici per la sua base d’installato)
  • micro lavori di sostituzione componentistica obsoleta (phase-out) o ammodernamenti (upgrade, retrofit, revamping) di piccola entità (e fatturato/marginalità) comparati al valore e complessità del prodotto oggetto dell’intervento. Attività che non serviranno altro che a far riaccendere onerose-rischiose garanzie, magari su un sistema/equipaggiamento/macchinario ampiamente già a fine vita (che poteva quindi essere riammodernato integralmente o addirittura rimpiazzato con uno nuovo!!). Tale problematica la segnaliamo anche alle numerose startup/società di informatica che si sono buttate (senza pregressa esperienza contrattuale, esecutiva nell’automazione industriale) nel settore Industria 4.0/Manutenzione 4.0, ritrovandosi poi anche loro invischiate (alla stregua degli OEMs) nelle sempre più frequenti dispute commerciali sulle cause dei fermi macchina
  • interventi in garanzia perchè il cliente ritiene (a volte senza dare evidenze o permettere una valutazione contradittoria) che le precedenti attività tecniche in campo (field-service) non sono risultate soddisfacenti o hanno procurato successivamente altre problematiche
  • noleggio di strumentazione da campo senza richiedere la presenza del tecnico; o noleggio/affitto dei pezzi di ricambi più costosi (rifacendosi grossolanamente agli emergenti modelli di business della servitizzazione manifatturiera, che sono in realtà ben altra cosa) sino alla richiesta per la creazione di un magazzino ricambi conto deposito da parte del fornitore (senza che sia poi garantito da parte del cliente l’acquisto dei materiali al termine del contratto)
  • interventi di field service senza contabilizzazione a misura delle ore e oneri di viaggio, vitto, alloggio (sostituiti dal cliente con un ammontare a forfait)

Esistono anche convenzioni contrattuali (a “scalare” o a “gettone”) con le quali gli uffici acquisti (che sanno fare bene il loro mestiere) accrescono (sulla carta) semplici esigenze “spot” per interventi e ricambistica (solitamente in emergenza) trasformandole (per incentivare il fornitore di service industriale) in corposi ed articolati accordi quadro (anche dall’ammontare importante) di reperibilità, assistenza e manutenzione programmata, ma vincolati nell’effettiva esecuzione e fatturazione (specialmente per le manutenzioni preventive, predittive) dal rilascio di ordini supplementari specifici per l’intervento.

Il che si traduce poi per il fornitore nell’avere nell’anno un’ entrata ordini potenziale (da parte del singolo cliente) con un ragguardevole ammontare massimale specificato “idealmente” sulla carta, salvo poi arrivarne a fatturare solo una piccola parte, magari dopo aver anche affrontato difficoltà logistiche e operative inaspettate (senza tralasciare eventuali extra-costi non previsti, o peggio assumere ulteriori tecnici di field service da dedicare al contratto che non verranno poi impiegati al massimo della loro disponibilità temporale).

Quanto sopra sono solo banali esempi delle limitate e pertanto anti economiche richieste che potrebbero scaturire quando si contatta per la prima volta il proprio cliente per promuovere e vendere anche forniture e contratti stutturati per il service post-vendita industriale, come quelli sotto indicati:

contratti annuali per il supporto telefonico, e-mail, monitoraggio, diagnostica, e assistenza remota per la base installata

  • contratti annuali per interventi tecnici in campo (anche in complessi contesti project-based EPC, heavily regulated countries, marine, harsh/hazardous areas & hostile environments)
  • forniture di set completi di ricambi
  • fermate manutentive minor e major (durante turnaround, shutdown ed outage)
  • manutenzioni preventive/predittive con l’ausilio di strumentazione da campo
  • installazioni, cablaggi, avviamenti e messe in servizio (commissioning, startup, handover) anche in contesti (appalti/subappalti) EPC
  • test e collaudi (system, string e performance test)
  • manutenzioni, riparazioni, revisioni e ricondizionamenti
  • accordi quadro e contratti di service a lungo termine (reperibilità telefonica, pronti a partire, LTSA)
  • progetti di ammodernamento (upgrade, retrofit, revamping, replacement, expansion) lato componenti, dispositivi, sistemi, architetture per aumentare il ciclo di vita della base installata
  • progetti di ammodernamento Industria 4.0/Manutenzione 4.0 (upgrade, retrofit, revamping, IT/OT integration, OT/SCADA/IACS/ICS cybersecurity) software-intensive necessari per attivare nuovi servizi industriali digitali (rivolti alla manutenzione predittiva) di monitoraggio, diagnostica, e assistenza remota per la base installata
  • consulenze per l’ingegneria di manutenzione, affidabilità, continuità di servizio
  • servizi di root cause analysis (RCA) ed ingegneria forense
  • formazione ed addestramento
  • noleggio e taratura di strumentazione da campo
  • studi, ricerche e comparazioni di componentistica equivalente per la gestione di obsolescenze

Chi opera nel comparto dei beni strumentali industriali deve sempre aver ben chiaro che l’obiettivo commerciale “fair-equilibrato” di chi vende contratti di service post-vendita industriale non è creare eccessive-opportunistiche rendite all’azienda per la quale lavora (che è la base della spesso discutibile “subscription-economy” di molte aziende del digitale, media, telco), ma di aiutare realmente-concretamente (fidelizzando) il cliente (rendendosi disponibili-presenti solo quando veramente serve) senza cercare di sostituirsi completamente al loro personale manutentivo interno, avendo però ben chiaro, d’altro canto, che la propria organizzazione di service ha anche dei costi importanti (mensilmente) da coprire.

Costi che crescono in base al numero di tecnici di field service a disposizione (in particolare se questi non sono sempre impegnati in campo e rimangono su centro di costo in attesa di commesse) o perchè si è voluto dotare il proprio magazzino di un numero elevato di ricambi a pronto per far fronte alle emergenze, ma che rimangono poi invenduti a fine anno.

Esempi dal campo:

**Il contratto Long Term Service Agreement (LTSA) svenduto**

Hai finalmente chiuso il contratto. Bene con quest’ultimo “deal” hai raggiunto gli obiettivi di quarter (il famoso colpaccio di fine mese).

Ma per farlo, hai accettato troppe richieste cliente:
Prezzo al minimo, reperibilità telefonica h24/365, tempi d’intervento (worldwide, bisognerà quindi correre per ottenere i VISA necessari) ridotti, sconto su tariffe prestazioni in campo contabilizzate si a misura (almeno quello), ma con maximum-cap spese insufficiente (tutti i costi annessi, vitto, alloggi, viaggi con budget risicato predefinito) ed obbligo di disponibilità ricambi mirati a pronto (ma senza obbligo d’acquisto da parte del cliente nel caso non si rendessero poi necessari).

Perché LTSA volevi/dovevi “portarlo a casa”.

Ora il contratto c’è, ma alla partenza non è economicamente ed operativamente sostenibile (bisognerà tirar fuori dal cappello magico varianti extra scopo contratto per generare margine almeno a copertura dei costi) e per il gestore delle operazioni:
– ogni intervento sarà potenzialmente in perdita.
– ogni extra fatturabile una battaglia.
– ogni riunione col cliente un lamento.

Hai svenduto il contratto di service post-vendita per essere più competitivo della concorrenza evitando un ulteriore sconto sul nuovo macchinario acquistato dal cliente.
Ma anche il service post-vendita è business, per fare profitti, ma soprattutto per coprire i costi dell’organizzazione che lo gestisce e lo fornisce (persone-materiali)

Il servizio per il cliente è dovuto, ma non è un bonus. È garanzia di continuità e tranquillità operativa.

Un LTSA sotto costo è un debito operativo a lungo termine, che paghi sempre, fino alla sua scadenza.

**Massimizzare i profitti lungo l’intero ciclo di vita dei beni strumentali industriali sta diventando un imperativo economico con il rischio derivante dai dazi doganali **

Oggi (nel 2024 il comparto nazionale automazione industriale ha perso il 27% del fatturato!!) con i rischi derivanti dal potenziale calo dell’export di nuovi prodotti (anche dovuto al rischio dazi doganali), massimizzare i profitti lungo l’intero ciclo di vita dei beni strumentali industriali già installati richiede un’integrazione più stretta tra i team di service e quelli di vendita.

Le aziende hanno capito che la fidelizzazione dei clienti nasce dalle durature-genuine relazioni di servizio tecnico, che a loro volta generano nuove opportunità di vendita di prodotti e servizi (anche se i margini service si stanno sensibilmente assottigliando causa crescente aumento delle ritenute alla fonte WHT per prestazioni in campo).

Questo approccio è diverso da quello di 20 anni fa, quando vendite e service erano gestiti separatamente per diversificarsi dai tradizionali modelli di business prodotto centrici.

Con l’aumento della maturità aziendale e il supporto delle tecnologie digitali, le imprese oggi riconoscono l’interdipendenza tra service e vendite e il loro impatto sulla redditività complessiva.
Tuttavia, una collaborazione efficace richiede ancora un cambiamento culturale.

Per liberare-accrescere il potere delle vendite attraverso il servizio clienti, è necessario cambiare prospettiva: non partire da ciò che il cliente vuole idealmente (caratteristiche del prodotto sempre più avanzate), ma da ciò di cui ha realmente bisogno per ottenere valore (risultati). Mentre la vendita tradizionale “spinge” una corposa e costosa soluzione predefinita, la vendita basata sul valore “crea” olisticamente una conveniente soluzione (spesso minimalista-efficace) costruita sulle reali, mirate, complesse esigenze del cliente (non basta più quindi vendere solo costosi ricambi!!).

Sebbene molte organizzazioni adottino metodologie di vendita avanzate (come le tradizionali vendite di soluzioni, etc.), spesso trascurano di fornire ai venditori (meglio se ex tecnici di service) gli strumenti culturali e pratiche esecutive necessari/e per implementarle con efficacia.

Il vero successo risiede nella capacità di instaurare conversazioni significative e durature con il cliente, comprendere a fondo i suoi bisogni e tradurli in offerte creatrici di valore.