Perchè promuovo e supporto l’adozione dell’informatica libera robusta (sistemi Linux & software Open Source) sul territorio

Oggi in quasi tutti gli uffici, infrastrutture ed abitazioni private con la diffusione di software, PC & smartphones sempre più potenti, interoperabili ed innovativi (ma via via sempre più insicuri) abbiamo una capacità di elaborazione e comunicazione inimmaginabile sino a una decina di anni fa. Strumenti che ci hanno purtroppo reso sempre più vulnerabili al furto degli estremi di accesso dei nostri conti correnti bancari e servizi commerciali-governativi, senza dimenticare i frequenti disservizi, la continua esfiltrazione dei nostri dati, informazioni personali-aziendali ed il continuo monitoraggio (condizionamento-sorveglianza) analisi delle nostre abitudini e conversazioni personali-professionali.

Chi ha un minimo di senso critico del dominio tecnologico (o semplicemente è stanco di essere “un libro virtuale aperto” ogni volta che accende il PC o usa lo smartphone) non può più accettare l’uso di tali pericolose e pervasive tecnologie digitali. Per tale motivo in tutto il mondo (ahimè anche da entrambe le sponde del democratico blocco continentale, dove da anni è in corso un progressivo degrado del free-speech, oltre al pericoloso aumento della polarizzazione di stampo ideologico), soprattutto le persone con elevati interessi personali (anche a livello di privacy-sicurezza-incolumità), professionali e finanziari (oltre a chi opera nel giornalismo investigativo, politica e difesa) stanno progressivamente abbandonando le più diffuse (ed insicure) tecnologie commerciali “mainstream” per passare ad altro (senza trascurare quello che da tempo stanno già facendo soprattutto le nazioni considerate “adversary”, per aumentare la loro indipendenza, sovranità e sicurezza nazionale).

P.S. anche il mondo del luxury (in particolare sul territorio elvetico che da sempre vanta una grande attenzione e tradizione sulle tematiche di privacy-confidenzialità) ha recentemente individuato nella capacità di preservare la propria privacy nel dominio digitale un emergente e silenzioso “status-symbol” riconducibile alle persone benestanti, lo dimostra anche tutta una crescente linea di costosi-esclusivi-sostenibili-minimalisti prodotti tecnologici “privacy-preservingtra i quali spiccano anche i “feature-phones & dumb-phones” dall’elevato-raffinato design. Tecnologie che nulla hanno a vedere con il famoso brand di Cupertino, che anche se migliore di Windows/Android non garantisce comunque i necessari standard di sicurezza e confidenzialità di soluzioni PETs (Privacy Enhancing Technologies/Techniques) native (sviluppate “eticamente” con il paradigma privacy-by-design) basate sempre più su sistemi Linux e software libero (Open Source).

** In un mondo in cui l’ambiente digitale domina sempre più le nostre vite, hai bisogno di qualcuno che conosca tecnologie e tecniche per proteggerti dai rischi e dalle minacce digitali

Come ridurre i rischi per il personale viaggiante anche derivanti dall’uso delle tecnologie digitali in contesti esteri complessi (heavily regulated countries, adversary/hostile environments)

**Articolo indirizzato a personale viaggiante commerciale, gestionale e nomadi digitali (difficilmente-parzialmente applicabile ai tecnici trasfertisti che adottano tools complessi-evoluti-avanzati su piattaforma Windows**

In tempi più recenti è aumentato nuovamente il rischio nei viaggi e permanenze in nazioni estere a causa del repentino aumento dei conflitti regionali e del degrado nelle relazioni internazionali tra molti paesi una volta ritenuti sicuri. Per tale motivo oltre a sviluppare una maggior cultura geopolitica (e qui le tecniche e strumenti OSINT possono essere d’aiuto) consiglio sempre alle organizzazioni (che si avvalgono di personale viaggiante, come nel caso del service industriale “field/post-vendita”) di impegnarsi nell’approfondimento della nuova ISO 31030 (travel risk management) oltre che della più generale ISO 31000 (in combinazione con la OSHAS 18001 ed ISO 45001) anche e soprattutto per i lavoratori trasfertisti in solitario.

Inoltre è sempre meno da sottovalutare in contesti complessi (con elevato grado di controllo, sorveglianza del personale straniero, trattamento in passato riservato al solo personale politico-diplomatico, VIP, ONG e del giornalismo investigativo, ma oggi applicato ad un numero molto più elevato di tipologie di viaggiatori business, accademici e turistici) l’uso degli strumenti digitali PC e smartphone (anche personali) da parte di personale viaggiante. Tecnologie digitali che se usate in maniera non consapevole (anche della sola legislazione nazionale dove si risiede temporaneamente per lavoro) possono mettere a rischio la privacy e la conseguente sicurezza (non solo informatica, ma anche personale) dei tecnici, gestori, commerciali in trasferta (per non parlare del rischio esfiltrazione delle informazioni di natura personale, tecnica, commerciale, contrattuale contenute nei dispositivi digitali).

Anche per tale motivo mi sto specializzando in informatica libera (Open Source) e tecnologie digitali aperte, robuste, sostenibili soprattutto per proteggersi dai ransomware, salvaguardare maggiormente la propria privacy e migliorare l’anonimato in rete oltre che dalla pervasività, dipendenza, disinformazione, condizionamento, manipolazione, ingerenza (e relativi rischi psicologici, sociali, sicurezza, frodi) derivante dall’uso delle piattaforme-servizi internet (sia da PC che da telefonia mobile).

Una delle soluzioni più semplici (minimaliste) ed economiche è basata principalmente sul riuso dei vostri PC obsoleti (e se possibile ricondizionamento attraverso l’installazione di SSD, in grado di velocizzare il computer) e formattazione con il sistema operativo Linux (in particolare distribuzione Debian 12 Bookworm e l’installazione di solo software libero Open Source)”. Chiaramente tale soluzione non è attuabile per i laptop utilizzati dal personale trasfertista tecnico (che utilizza avanzati software su Windows).

Con questa tipologia di computer Linux customizzato (che utilizzo come PC sicuro dal 1998 come “sand-box” per le e-mail e per proteggermi dai primi malware) “almeno Intel Core 5 a 64 bit con 4 GB di RAM” (più sicuro e maggiormente preservatore di privacy-anonimato) posso poi formare e addestrare all’utilizzo consapevole del web per favorire una maggior sicurezza informatica, affrontando tematiche cruciali legate alla navigazione online come la violazione della propria privacy, la profilazione, il monitoraggio, condizionamento ed eventualmente la sorveglianza.

A titolo di esempio ricordo (per chi non è un addetto ai lavori di missioni/trasferte internazionali in aree extra EU) alcuni semplici e banali istruzioni:

I laptop, i tablet, i lettori di e-book, gli smartphone e persino i telefoni cellulari standard (dumb-phones/feature-phones) portati all’estero possono essere soggetti con successo a attacchi e compromissioni attraverso malware, strumenti di attacco automatizzati ed IMSI catcher (molti aeroporti sono dotati di tali tecnologie proprio per intercettare le prime telefonate del personale viaggiante non appena scende dall’aereo e chiama casa, il proprio ufficio e/o contatto locale). Ricordate inoltre che il software di sicurezza proprietario, anche quando completamente aggiornato, potrebbe non essere in grado di prevenire tali compromissioni [i telefonini che cifrano le conversazioni vocali telefoniche sono cose da film e comunque vietati ogni dove, anche se ricordo negli anni 90 in determinati aeroporti europei (nelle aree commerciali delle partenze) la vendita di prime tali tecnologie].

I dispositivi elettronici sono altresì suscettibili di manomissione fisica o furto, specialmente se lasciati incustoditi (ad esempio, quarantene hardware per adempiere ai processi interni di industrial cyber security prima di accedere all’impianto/stabilimento – controlli supplementari negli aereoporti – accesso non autorizzato dei dispositivi lasciati in una stanza d’albergo o in una cassaforte, io stesso ricordo già agli inizi anni 90 tali controlli e perquisizioni sia in aeroporto, hotels che si estendevano dagli indumenti in valigia al resto della mia attrezzatura informatica e di misura elettronica). D’altro canto, portare continuamente con sé laptop o altri dispositivi elettronici potrebbe aumentare il rischio di smarrimento o dimenticanza accidentale, o di furto da parte di un ladro o borseggiatore. Si consiglia comunque di tenere i dispositivi digitali con sé il più possibile (oltre al passaporto ed una copia digitale-cartacea dello stesso oltre che del VISA).

I dispositivi trasportati attraverso i confini internazionali possono essere soggetti a una revisione governativa ufficiale e persino a una duplicazione completa (ad esempio, in alcuni paesi, gli ufficiali doganali (o molto più frequentemente i responsabili IT della sicurezza di un’infrastruttura critica) potrebbero temporaneamente mettere in quarantena il dispositivo e conservare potenzialmente una copia dell’intero sistema all’ingresso o all’uscita).

L’uso della crittografia potrebbe essere vietato in alcuni paesi. Ad esempio, mentre certi contesti lavorativi continentali-occidentali per tutelare i propri dati richiedono esplicitamente prassi di crittografia dell’intero disco per proteggere le informazioni personali, professionali su laptop, alcuni paesi non consentono invece l’importazione/esportazione di dispositivi criptati. Anche se alcuni prodotti di crittografia dell’intero disco, consentono di tentare di nascondere limitate partizioni di disco criptate, tali tentativi possono comunque essere rilevati, e mentire in risposta alle domande degli ufficiali di frontiera sulla presenza di partizioni di disco criptate potrebbe costituire un potenziale reato grave.

L’accesso a determinati siti web (evitare rigorosamente tutto ciò che è potenzialmente compromettente…non vado oltre), compresi alcuni popolari siti web di social media occidentali, potrebbe essere tecnicamente bloccato. I siti web sicuri (“https”) e l’uso di reti private virtuali istituzionali (“VPN”) potrebbero essere bloccati in alcuni paesi, poiché risulta più difficile alle autorità nazionali monitorare quel traffico crittografato (senza andare lontano provate su alcuni carrier-network digitali nazionali Svizzeri a lanciare un accesso remoto via SSH, e potrebbero bloccarvi la navigazione se non addirittura il contratto-servizio se insistete). Tentativi di eludere la censura nazionale (ad esempio, con proxy, Tor o tecnologie simili) potrebbero essere bloccati e/o puniti se rilevati. Non installare mai software-app locali! (e se proprio dovete usate un nuovo telefono dedicato e rirpristinatelo da zero una volta ritornati a casa…consiglio se proprio dovete portarvi addietro il numero di telefono personale usate un dumb-phone/feature-phone solo con contatti ICE nella rubrica).

I contenuti digitali personali come foto, riviste digitali, libri sono da limitare (anche in nazioni moderne, democratiche ed avanzate potrebbero essere rilevate delle banali violazioni ad esempio del diritto d’autore) in quanto considerati irrispettosi-oltraggiosi della cultura locale (non lasciate inoltre attivo l’accesso a portali, piattaforme, cloud o comunque rapidamente accessibili con password memorizzata in maniera automatica sul browser).

P.S. anche fare gli attivisti sui social nei confronti di tematiche sensibili per una determinata nazione e poi doversi trovare nella condizione di soggiornarci per lavoro (sempre che vi rilascino il VISA, dal momento che il vostro profilo potrebbe essere stato profilato a priori) non è consigliabile (usate sempre i social con attenzione a maggior ragione se la vostra professione richiede di viaggiare in tutto il mondo).

Una maggior cultura, consapevolezza ed attenzione sui potenziali rischi di viaggio e permanenza del personale tecnico trasfertista

Nei miei precedenti incarichi lavorativi l’argomento della sicurezza del personale tecnico viaggiante mi ha sempre coinvolto quotidianamente in prima persona, dapprima direttamente come trasfertista e successivamente come coordinatore e gestore di attività di site/field service (cantieri, fabbriche, impianti, navi, piattaforme offshore). In più di 25 anni nel comparto ho avuto modo di accumulare tutta una serie di esperienze professionali che mi hanno fatto comprendere quanto le operazioni di preparazione e gestione trasferta necessitino di un continuo miglioramento ed adeguamento globale ai mutevoli contesti internazionali presso i quali si andrà ad operare con il proprio personale. Sono pertanto un forte sostenitore che tali operazioni non debbano essere coordinate, gestite, amministrate, dirette da solo personale Junior o non sufficientemente esperto della materia/mestiere come a volte si legge sulle inserzioni di lavoro più recenti.

Il tema delle attività in trasferta internazionale (in particolare extra EU in nazioni emergenti, contesti disagiati) è da sempre poco noto soprattutto ai non addetti ai lavori (anche la stessa AIRE non dispone di vere e proprie percentuali per rappresentare l’elevato numero di migliaia di “expats” costituito dai trasfertisti “resident/long-stays” del comparto macchinari, fabbriche manifatturiere, impianti industriali, navale, edile, etc.) e ci si accorge dell’esistenza dei nostri numerosi connazionali lavoratori all’estero ahimè solo in presenza di sinistri (operai, tecnici, periti, ingegneri professionisti non solo in grado di montare e mettere in servizio macchinari complessi, ma il più delle volte anche capaci di dirigere “on-site” la costruzione ed avviamento “da zero” di grandi fabbriche ed impianti completi in aree fortemente isolate, disagiate e/o pericolose).

Probabilmente le cause di questa scarsa conoscenza del “mestiere” di tecnico trasfertista oltre che delle relative problematiche, criticità e rischi professionali sono da imputare in parte ad una scarsa cultura aziendale (quasi sempre solo prodotto-centrica oltre che orientata a valorizzare maggiormente le risorse d’ufficio/fabbrica con percorsi di carriera più strutturati/articolati a discapito di quelle impiegate in campo nelle trasferte) sulle operazioni in campo, ma soprattutto ad una legislazione (legge 81) che è sufficientemente chiara e completa nell’ambito degli adempimenti di sicurezza per la propria sede produttiva (al solito, lavoro in fabbrica/ufficio) o nelle attività cantieristiche da titolo IV (es. operazioni lavorative operate da un elevato numero di squadre altamente organizzate e coordinate direttamente in sito sul territorio nazionale), ma che a mio avviso è incompleta (lato comprensione e casistiche contemplate) nelle parti relative a “singoli lavoratori viaggianti” che eseguono attività specialistiche direttamente (in maniera spot o continuativa) presso i clienti industriali in ambito nazionale ed estero (anche se con i recenti interpelli sull’obbligo del preposto per i lavoratori in solitario, la normativa inizia a comprendere meglio le operazioni in trasferta).

Da quando esiste il testo unico, uno degli adempimenti immediati da affrontare lato sicurezza è individuare chi sia per ogni trasferta lavorativa tecnica il dirigente, preposto e lavoratore (su tali nomine e sulla confusione normativa per chi effettivamente ricopre “di fatto” di volta in volta tale ruolo a guida/tutela/sorveglianza dei singoli trasfertisti in missione ci vorrebbe un articolo dedicato, anche se con gli interpelli sopra citati si rafforza invece la necessità di avere uno o più preposti itineranti dedicati a vigilare con ispezioni random in tutti i siti lavorativi).

Incarichi che vanno sempre, subito ed ininterrottamente supportati dai team HR e HSE (oltre che dal resto degli enti aziendali che potrebbero venir coinvolti nelle operazioni di field-service) per facilitare e condividere le ulteriori importanti responsabilità assunte da chi riveste di volta in volta questi ruoli (chi opera nel settore saprà già per certo che quanto sopra descritto è solo il punto di partenza per dar via a tutte le fasi di analisi, preparazione ed esecuzione per individuare/evitare/mitigare i rischi tipici/probabili dell’attività specialistica che si andrà a svolgere all’estero in campo).

Ma c’è poi un altro tema lato legge 81 (chi si occupa di organizzazione, gestione trasferte dovrebbe anche studiarsi tutta una serie di sentenze della cassazione, in modo da ricordarsi di non prendere mai sotto gamba il proprio benestare “frettoloso” allo spostamento-viaggio di un tecnico, anche se dettato da forti pressione del cliente o della propria direzione) che la pandemia ha fatto emergere ed è quello della “trasferta in sicurezza” intesa anche come “viaggio, logistica e permanenza in sicurezza all’estero” che ha messo in evidenza i limiti organizzativi di molte aziende (soprattutto quelle più piccole) che già operavano da tempo in ambito internazionale essenzialmente grazie alla grande esperienza professionale del proprio personale trasfertista senior in grado di muoversi e organizzarsi agevolmente oltre confine con un buon livello di autonomia e conoscenza/attenzione dei rischi professionali specifici della missione.

Infatti chi come lo scrivente ha iniziato da ragazzo negli inizi anni 90 ad andare in trasferta (anche in aree a rischio, isolate, disagiate o con forti/rigide regole sugli usi/costumi locali e restrizioni agli spostamenti) ha imparato da solo autonomamente (a volte seguendo le indicazioni/istruzioni dei colleghi senior o apprendendo dai propri errori e situazioni impreviste) a viaggiare e lavorare in “sicurezza” con un supporto non sempre continuativo dalla casa madre (non esistevano e-mail e telefonini, a volte la linea fissa internazionale era solo alle poste ed i voli per determinate città erano solo settimanali) e soprattutto evitare disagi e rischi in nazioni socialmente, culturalmente ed economicamente molto diverse dall’Europa. 

Dal 2000 in poi l’estremismo religioso, i conflitti/crisi regionali, il terrorismo, i rapimenti e l’aumento della micro criminalità (derivante da situazioni di crescente povertà/disuguaglianza sociale) hanno reso più pericoloso e complicato spostarsi “da soli” per lavoro (senza la necessaria preparazione e supporto in loco) in certe aree del pianeta e solo le grandi aziende più strutturate come gli EPC contractor che operavano già da tempo all’estero in aree a rischio hanno ulteriormente potenziato e strutturato la loro organizzazione per rendere ancora più sicure le trasferte del proprio personale e dei propri fornitori subappaltatori.

Questa evoluzione non è purtroppo avvenuta di pari grado in molte PMI che solo in parte hanno saputo strutturarsi per gestire al meglio le operazioni del proprio personale viaggiante (perlopiù affidandandosi all’organizzazione messa in piedi dai clienti ed agenti locali).

La scossa finale è stata data dal covid-19 che ha obbligato giocoforza anche queste imprese a strutturarsi per farsi carico integralmente dell’organizzazione delle proprie trasferte con un livello di preparazione, attenzione, dettaglio e cura precedentemente impensabili (chi se la sarebbe sentita, legge permettendo… di inviare senza la necessaria completa e precisa organizzazione logistica i propri colleghi in contesti con situazioni sanitarie e tensioni sociali altamente a rischio).

Oggi è sempre più in aumento il numero di PMI che hanno ripreso ad inviare i propri tecnici in trasferta (non in tutte le nazioni ovviamente a causa di diffuse crisi politiche-militari) un risultato (impensabile durante i lockdown) che si è ottenuto potenziando la propria struttura interna, affidandosi anche anche a società specializzate in travel security management che già operavano in contesti esteri complessi (heavily regulated countries, harsh/hazardous areas, hostile environments) oltre a consulenti esterni (ex-trasfertisti) esperti nella gestione organizzativa ed esecutiva delle attività di field-service internazionale.

Purtroppo in tempi più recenti è aumentato nuovamente il rischio nei viaggi e permanenze in nazioni estere a causa del repentino aumento dei conflitti regionali e del degrado nelle relazioni internazionali tra molti paesi una volta ritenuti sicuri. Per tale motivo oltre a sviluppare una maggior cultura geopolitica (e qui le tecniche e strumenti OSINT possono essere d’aiuto) consiglio sempre alle organizzazioni di impegnarsi nell’approfondimento della nuova ISO 31030 (travel risk management) oltre che della più generale ISO 31000 (in combinazione con la OSHAS 18001 ed ISO 45001) anche e soprattutto per i lavoratori trasfertisti in solitario

Inoltre è sempre meno da sottovalutare in contesti complessi (con elevato grado di controllo, sorveglianza del personale straniero) l’uso degli strumenti digitali PC e smartphone (anche personali) da parte dei tecnici trasfertisti. Tecnologie digitali che se usate in maniera non consapevole (anche della sola legislazione nazionale dove si risiede per lavoro) possono creare problemi durante le trasferte (esempio usare VPN, messaggistica crittografata o cifrature dei dati sugli hard-disk è diventato illegale in diverse nazioni).

“Sistemi Linux vs Ransomware”​ soluzioni a basso costo di Cyber Resilience & Digital Operations Survival Platforms per avere a disposizione (nelle piccole organizzazioni di gestione service industriale) dei computer d’emergenza durante gli attacchi informatici (oltre che durante le disfunzioni delle principali piattforme digitali commerciali sia cloud che on-premises)

** Sempre aperto ad incarichi-interventi per digitalizzare (con un paradigma ecosostenibile basato sull’ingegnosità-innovazione frugale avanzata e riuso-ricondizionamento dei propri computers Windows obsoleti, da convertire in moderne workstations/server Linux) il territorio e/o aree rurali-disagiate (anche estere) in contesti SOHO (Small Office/Home Office) privi dei necessari budget d’acquisto di tecnologie informatiche proprietarie/commerciali per rafforzare resilienza operativa digitale, privacy, confidenzialità durante l’uso dei PC e/o da adottare anche in caso di eventi complessi ed emergenziali (blocco globale catene di fornitura, blackout, calamità), ma soprattutto durante i sempre più diffusi attacchi informatici, disfunzionalità ed indisponibilità dei tradizionali sistemi ICT e servizi in cloud (anche causa cambi delle politiche-licenze commerciali e/o non rispetto del GDPR). **

Non passa giorno senza essere messi a conoscenza dell’ennesima azienda locale vittima di attacchi informatici ransomware creati per autopropagarsi in rete, criptare gli hard-disk e rendere di fatto inutilizzabile tutta l’infrastruttura digitale colpita (almeno sino al pagamento di un cospicuo riscatto in criptovaluta). Solo recentemente un importante e strategica infrastruttura cloud della pubblica amministrazione nazionale è finita fuori servizio per settimane creando innumerevoli problemi a cittadini, imprese (fatturazione elettronica) ed enti statali. Per non parlare di quello che accaduto a livello globale con il crash informatico mondiale del 19 luglio 2024, a causa di un banale e “benevolo” errore d’aggiornamento software di un importante azienda IT.

E’ facile pensare che il fenomeno sia relegato solo ad artigiani, ditte individuali, studi professionali, micro-piccole imprese (tradizionalmente in difficoltà ad investire nell’informatica per la cronica mancanza di sufficienti risorse finanziarie) e quando si scopre che anche le medie e grandi aziende (che invece investono maggiormente nel digitale) ma soprattutto le infrastrutture critiche, enti governativi, difesa (oltre alle aziende stesse di sicurezza informatica) sono a loro volta vittime di tali attacchi, si comprende il perchè molte nazioni (in Europa principalmente Francia, Germania, paesi scandinavi, baltici e recentemente anche Svizzera) stiano spingendo già da tempo le loro organizzazioni governative (e non solo quelle) a passare al sistema operativo Linux.

Anche il governo cinese ha creato (per motivi di crescita ed indipendenza-sovranità tecnologica, anche lato infrastrutture nazionali per l’IA) un’apposita serie di distribuzioni Linux, per un utilizzo mirato all’interno di enti pubblici, militari e strategici (nella federazione Russa è stata ancor prima intrapresa un’azione simile a quella cinese anche se meno pubblicizzata visto che è stata realizzata principalmente per l’ambito difesa). Una transizione tecnologica controcorrente (rispetto alle scelte tecnologiche del passato) che guarda caso riguarda soprattutto i maggiori stati (stando alla stampa internazionale) dietro ai principali attacchi informatici perpetrati nell’area continentale.

Il fatto poi che uno dei più grandi produttori internazionale di computer sito in Pechino abbia già da diversi anni iniziato a promuovere su larga scala la vendita di desktop e portatili Linux per un’utilizzo anche in ambito business nel mercato nazionale ed estero dovrebbe far riflettere su quella che è la strada maestra da percorrere a livello digitalizzazione “più sicura” futura.

Qui in Italia (ma non nel resto d’Europa in particolare in Francia dove il software libero è considerato un pilastro per l’indipendenza-sovranità tecnologica nazionale “Souveraineté économique”) si pensa ancora che le workstations basate su Linux non siano adatte alla maggior parte delle nostre imprese ed enti pubblici (nel mentre numerosi imprenditori visionari d’oltre oceano o asiatici hanno da tempo creato nuovi business milionari anche grazie all’uso sapiente del software libero).

In effetti se in ufficio (noncuranti del fatto che quasi tutto quello che ideiamo-realizziamo-archiviamo sul computer-cloud può essere potenzialmente analizzato con telemetrie proprio dai produttori dei software. . vedi Recall su Windows 11 ) si utilizzano gestionali sviluppati su Windows o programmi specialistici di progettazione e disegno CAD (che è poi la configurazione tipica di tante micro, PMI e grandi aziende nazionali del settore metalmeccanico, edile) l’opzione Linux come sistema operativo aziendale primario diventa difficile se non impossibile da percorrere almeno in ambito desktop (anche se stanno arrivando sul mercato CAD nativi Linux di livello professionale basati su licenze commerciali). Cionondimeno esistono comunque dei cad (al solito più diffusi nel resto d’Europa) elettronici (PCB), elettrici e meccanici “2D/3D” interamente rilasciati sotto licenza libera (KiCad, QElectroTech, FreeCAD, QCAD, FreeCAD) già presenti nelle principali distribuzioni Linux (anche se le traduzioni in italiano dell’interfaccia utente non sono sempre complete e i software non gestiscono i formati proprietari dei disegni/schemi .dwg).

CAD che al momento (nonostante siano ancora carenti lato funzionalità) sono adottati principalmente da moderne ed avanzate società del settore automazione, elettronica, embedded, telecomunicazioni, aerospaziale più avezzi all’utilizzo di tecnologie emergenti.

Per non parlare dell’abitudinarietà (che è poi il grande vero ostacolo a qualsiasi cambiamento tecnologico/piano di innovazione nelle aziende) di molti utilizzatori di PC in difficoltà o semplicemente contrari ad apprendere l’uso di nuovi software (solitamente più semplici, minimalisti e “privi di numerose features superflue” rispetto alle controparti proprietarie-commerciali) e/o accettare cambiamenti dell’interfaccia utente (molti fornitori di tecnologie digitali a volte dimenticano che chi utilizza il computer solo per svolgere il proprio lavoro impiegatizio o manageriale in ufficio e/o in fabbrica, cantiere è quasi sempre molto conservativo e possono volerci mesi per abituarsi al nuovo strumento informatico).

D’altro canto è possibile intraprendere (progetto SMDATA Lab) una “parziale” migrazione a Linux (con le necessarie verifiche preliminari di fattibilità e compatibilità con l’hardware esistente), se l’organizzazione già opera con gestionali accessibili via web/cloud (oggi sempre più diffusi soprattutto nelle piccole realtà aziendali) ed il proprio ambito lavorativo è prevelentemente di coordinamento, oltre che commerciale e gestionale nel service industriale.

Se poi si lavora nella nicchia di mercato legata alle applicazioni scientifiche e di ricerca, oltre che nel settore informatico delle grandi corporations e startup tecnologiche la migrazione diventa ancora più fattibile visto che in questi comparti sono anni che si utilizzano desktop, portatili e server Linux (nel tempo sono addirittura nati oltre agli OEMs cinesi, dei produttori americani e tedeschi-olandesi di computer di fascia alta che installano nativamente il sistema operativo Linux realizzando avanzate workstations, per non parlare del crescente mercato degli smarthphones “degooglizzati” per migliorare la privacy/confidenzialità degli utenti).

Inoltre è sempre più facile imbattersi su internet nel comparto Industria 4.0 di aziende che usano infrastrutture ICT Linux per gestire le attività di progettazione, collaudo e service post-vendita delle complesse architetture informatiche industriali (OT & Embedded) dei sistemi “software-intensive” SCADA/ICS/IACS di supervisione, automazione, controllo (e relativa quadristica elettrica di comando, bordo macchina).

Ora, tornando invece al problema degli attacchi ransomware, a prescindere dalla tipologia di azienda e business, molte piccole organizzazioni possono essere comunque aiutate ad adottare parzialmente (in ambito SOHO Small Office/Home Office) sistemi Linux desktop, portatili e file server (meglio senza l’accesso al sempre più vulnerabile ed inaffidabile protocollo SMB) laddove si decida di dotarsi di una piccola infrastruttura informatica parallela di emergenza “Cyber Resilience & Digital Operations Survival Platforms” (realizzata con il ricondizionamento dei propri vecchi computer Windows obsoleti: XP, Vista, 7) da utilizzare nel caso si sia costretti dopo un attacco informatico a spegnere l’infrastruttura Windows principale.

Una soluzione minimale o meglio di “ingegneria/innovazione open-frugale avanzata” e/o “Maker” (che i grandi operatori della sicurezza informatica, potrebbero definire “di fortuna” o non professionale… anche se a dire il vero sono più di 20 anni che mi cimento ad aprire (anche durante viaggi-trasferte) su desktop Linux (utilizzati inizialmente solo come “Sand-Box”) allegati e-mail di phishing contenenti virus e malware di ogni genere senza incorrere in nessun particolare tipo di problema), ma che permette (in attesa che si ripristini l’infrastruttura informatica principale) di tenere in piedi almeno l’accesso al web, alla posta elettronica esterna, a fogli di calcolo e documenti privi di macro (chiaramente se presenti su un file server Linux di backup) e di poter continuare ad interagire parzialmente con i propri clienti, fornitori, oltre a un un numero limitato di colleghi/collaboratori (per dovere di cronaca ci sono numerose aziende che sono rimaste ferme e/o chiuse per settimane a causa dei ransomware).

Questo è possibile perchè il sistema operativo Linux è ad oggi poco diffuso negli uffici in modalità “on-premises” (soprattutto lato desktop, notebook, workstation) ma anche perchè intrinsicamente più “robusto”, “minimalista” ed “essenziale” (esistono studi sul legame tra complessità, sicurezza ed affidabilità di un sistema digitale) oltre che maggiormente rigoroso/rigido di Windows lato privilegi necessari all’installazione-esecuzione programmi e alla condivisione-trasferimento files. Il che lo rende oggi più immune dalle minacce informatiche più diffuse in particolare per i PC desktop (tipicamente software malevoli nascosti in e-mail, pagine web, PDF, immagini e documenti Office).

Un discorso diverso vale invece per i server Linux utilizzati in ambito web o cloud (a parte i costi sempre più importanti causati dall’attuale caro prezzi) che invece (complice l’ormai sempre più costosa, esasperata ed ingestibile complessità delle architetture cloud virtuali/containers implementate nei data centers) essendo altamente diffusi (e mal integrati-amministrati), sono da tempo vittima alla stregua dei sistemi Windows di tutta una serie di attacchi e vulnerabilità (affidarsi oggi alle sole infrastrutture cloud senza un backup fisico on-premises è sempre più rischioso). Per tale motivo sono in aumento le aziende (anche grandi gruppi high-tech che tengono ben custodito il loro know-how su macchine fisiche decentrate “on-premises” nelle loro sedi o data centers di prossimità fisicamente accessibili, stando ben lontani dal sempre più poroso e costoso cloud).

Esistono naturalmente numerose ed ottime soluzioni commerciali (quasi sempre estere) per la sicurezza-resilienza informatica, ma purtroppo la maggior parte non sono ad oggi alla portata di molte delle micro-piccole realtà aziendali, professionali ed artigiane con limitato potere di spesa, che sono invece quelle che il progetto SMDATA Lab intende servire.

Sistemi Linux e Software Libero per digitalizzare ed internazionalizzare le micro imprese locali: criticita’ e vantaggi percepiti dall’imprenditore

** l’attuale congiuntura economica (come certificato dall’ISTAT che conclama proprio in questi giorni la “stagnazione” del PIL italiano) richiede che anche le micro imprese volgano il loro sguardo al mercato estero direttamente, senza passare per le antiprofittevoli catene di appalto nazionali, che erodono a dismisura i margini di chi opera nella parte bassa delle reti di forniture) **

Da quando ho ripreso a promuovere sul territorio (principalmente presso artigiani, ditte individuali, micro imprese del comparto beni strumentali e manifatturiero) l’adozione di sistemi Linux, software open-source (anche con interfaccia utente in lingua inglese per facilitare l’internazionalizzazione dei micro uffici-reparti) per rafforzare le capacità di condivisione ed analisi dati all’interno delle piccole organizzazioni addette allo sviluppo commerciale, gestione progetti-servizi su commessa in campo-cantiere (field service) e service post-vendita industriale internazionale, ho dovuto rapidamente imparare a far fronte a tutta una serie di reazioni all’eventuale utilizzo da parte della maggioranza dei titolari d’azienda contattati.

Curiosità ed interesse iniziale, perchè l’imprenditore (ricordiamoci sempre che l’innovazione digitale è l’ultima delle preoccupazioni di chi manda avanti con grandi difficoltà una ditta individuale o micro impresa familiare in questo complesso periodo) intuisce di poter finalmente riammodernare e soprattutto internazionalizzare una parte della propria infrastruttura informatica con una spesa limitata, grazie all’assenza dei costi per le licenze software (riutilizzando ecosostenibilmente e convenientemente, laddove possibile, parte del proprio vecchio hardware ora obsoleto, in disuso).

Perplessità quando viene affrontato il tema del supporto tecnico che in molti casi viene demandato ad una non ben identificata comunità di utilizzatori e rete di micro aziende e professionisti informatici senza che vi sia una formale relazione commerciale con chi ha scritto il software libero (Open Source) originale.

Per non parlare poi dell’entropia normativa introdotta dai recenti regolamenti comunitari (redatti per multinazionali, ma applicate anche alle semplici partite IVA) in ambito digitalizzazione (anche lato software libero) delle nazioni membre EU.

Dubbi sulla qualità ed affidabilità di queste tecnologie, non appena si comprende che la licenza libera e gratuita sottindende anchenessuna garanzia sulla funzionalità del software stesso e nessun tipo di obbligo/impegno nei confronti dell’utilizzatore” (anche da parte dello specialista assunto a contratto che supporta/addestra “per il periodo necessario” il cliente nell’adozione delle stesse).

Reazioni iniziali che aprono poi lo strada ad una serie di obiezioni ancora più sostanziali e per le quali è necessario molto lavoro per arrivare a gestirle. Anche se il più delle volte mi è sufficiente far presente che dal 2003 con l’adozione di software libero ho fatto risparmiare per altre attività di famiglia (e non solo..), decine e decine di migliaia di euro, che altrimenti avrei fatto spendere per soluzioni proprietarie (oltre ad aumentare la loro capacità di lavorare agevolmente per/all’estero per grandi OEMs, EPC end-user nazionali, internazionali).

Ciononostante, molti degli imprenditori con i quali ho avuto modo di rapportarmi ritengono in prima battuta (e concordo con loro) che il proprio personale non avrebbe ne il tempo, ne la motivazione e in alcuni casi la capacità di imparare (oltre alle barriere linguistiche) ad usare nuovi strumenti digitali (in particolare se l’interfaccia di lavoro è in inglese e si discosta molto dalle tradizionali tecnologie commerciali mainstream).

Ma principalmente obbiettano del fatto che questi software nella loro modalità libera vengano rilasciati nativamente: liberamente scaricabili da internet (da chiunque) e pronti all’uso, senza nessun tipo di supporto ufficiale/formale (al di fuori di chat, sistemi documentali wiki e forum web), garanzia, certificazione e responsabilità sulla loro corretta funzionalità.

Il che potrebbe portare nel caso di un’ imprevista errata gestione o perdita dei dati ad un rallentamento o blocco delle attività lavorative dell’azienda, senza poi sapere chiaramente a chi rivolgersi per risolvere il problema (ricordiamoci però che il tema del “a chi mi rivolgo se il sistema smette di funzionare ?” è da sempre ricorrente nel mondo dell’informatica proprietaria e commerciale, ma con le licenze libere e gratuite il fenomeno si è in effetti accentuato).

Recentemente però, grazie ad un cambio delle clausole nelle licenze è diventato anche possibile, pur rimanendo nell’ambito dei software liberi, optare per un mix tra licenze gratuite e commerciali, con funzioni a pagamento più avanzate, supporto remoto incluso e fruizione tramite servizi cloud (SaaS) con sottoscrizione a pagamento. Ma con questa modalità (che tutela e supporta maggiormente l’utilizzatore) si ricade comunque negli stessi problemi per l’adozione di software proprietario, ovvero che non ci sarebbero i budget sufficienti a disposizione (in particolare con la congiuntura economica attualmente in corso) per l’investimento da parte di artigiani, ditte individuali, micro-piccole imprese (oltre al timore “fondato” di perdere il controllo dei propri dati commerciali non appena li riversiamo sui server esterni di un ente terzo).

Fermo restando che l’uso di sistemi Linux e software liberorimane sempre una scelta ed una responsabilità solo dell’imprenditore che li adotta“, deve essere chiaro che per il professionista assunto/dedicato a supportare l’adozione di queste tecnologie, non è comunque possibile supplire a carenze tecniche di prodotto o garantire e certificare funzionalità per software sviluppati da terzi (e soprattutto farsi carico della responsabilità di migrazioni, personalizzazioni, oltre che del buon esito del trattamento, backup e ripristino dei dati). Non ha nemmeno senso compararli come funzionalità ai più blasonati prodotti commerciali (soprattutto i software liberi di produttività e relativi gestionali sono lato funzionalità ancora molto indietro rispetto alle tecnologie proprietarie).

Cionostante (in particolar modo fuori dall’Italia dove l’inglese è parlato diffusamente) il numero di adozioni di sistemi Linux e software libero nelle micro e piccole imprese sta diventando comunque di giorno in giorno sempre più elevato e frequente (anche perchè indubbiamente più economico oltre che incentivato/sponsorizzato come tecnologia strategica dai principali stati europei), in particolare laddove:

a) è già presente in azienda un gestionale ERP accessibile via web/cloud

b) è possibile riutilizzare buona parte dei vecchi computer aziendali ora in disuso (almeno Intel Core 2 Duo a 64 bit con 4 GB di RAM da potenziare/velocizzare eventualmente con hard-disk a stato solido)

c) l’utilizzo di software con interfaccia grafica (GUI) diversa da Windows (e con interfaccia spesso in sola lingua inglese) non rappresenta un problema e sono sufficienti strumenti informatici minimali ed essenziali (privi di features superflue) senza il ricorso a costose e continue personalizzazioni

d) l’impresa continua a subire gravi interruzioni della propria attività per le perdite/furto di dati derivanti dai virus che criptano gli hard disk nei computer (cryptolocker e ransomware)

e) si hanno risorse finanziarie limitate per acquistare tecnologie e soluzioni informatiche proprietarie e commerciali

f) non è possibile per le limitazioni di budget (e/o perchè si vuole mantenere il controllo dei propri dati all’interno della propria sede lavorativa) utilizzare le più recenti tecnologie e soluzioni informatiche (il più delle volte basate sempre su software libero rilasciato però in modalità commerciale “Freemium”), erogate su piattaforme a pagamento cloud (Saas) e fatturate secondo il modello della sottoscrizione per numero di mesi, utenti e quantità di dati generati/archiviabili. (P.S. personalmente non ho ancora provato a sottoscrivere contratti con piattaforme cloud commerciali a consumo in quanto non mi è possibile capire a priori “con certezza” soprattutto con l’attuale caro prezzi quanto si andrà a spendere lato traffico-capienza dati, transazioni eseguibili, servizi attivati, etc. Inoltre molti grandi providers chiedono anche per testare la versione valutazione/prova del servizio di inserire preventivamente la carta di credito)

g) si hanno già le risorse tecniche interne (è il tipico caso delle startup) per supportare integralmente ed autonomamente queste tecnologie

h) l’imprenditore ha compreso che tali tecnologie libere potrebbero diventare già nel breve termine strategiche, aiutandolo a differenziarsi dai suoi concorrenti ammodernando, digitalizzando, internazionalizzando e sviluppando “con costi ridotti” l’organizzazione della propria azienda con gli stessi strumenti informatici (anche se minimali, essenziali) già in uso presso realtà più strutturate. Arrivando così a potersi presentare ai clienti potendo dimostrare non solo prezzi convenienti, capacità, competenze e qualità del proprio servizio/prodotto (come già fanno tutti), ma anche e soprattutto l’elevato livello di digitalizzazione introdotto per gestire parte dei propri processi aziendali in maniera moderna, collaborativa, organizzata, analitica e se necessario anche da remoto

Affinchè questi progetti di trasferimento tecnologico si tramutino sistematicamente in un successo, è di fondamentale importanza fare in modo che il processo di introduzione ed adozione per queste nuove tecnologie, “sia fortemente voluto dalla proprietà e accettato dal personale” e che avvenga in maniera graduale, sempre con un approccio sperimentale e prudenziale, solo per un numero limitato di collaboratori ed attività aziendali, limitando chiaramente al minimo anche il numero degli interventi del professionista a contratto per formazione e supporto (l’unico costo inizialmente in gioco, laddove non ci sia anche da acquistare o ricondizionare computer usati). Per esperienze pregresse sappiamo che se iniziano a levarsi malumori in azienda da parte degli utilizzatori con frasi del tipo. “non parlo inglese, sono qui per lavorare e non fare data entry o analisi lavorative/numeriche” è meglio lasciar perdere qualsiasi iniziativa di digitalizzazione ed internazionalizzazione che può essere solo ulteriormente deleteria per il proprio business (il mondo del digitale e del business estero non è purtroppo per tutti, come invece si cerca forzosamente di propinare da anni, e bisogna saperne prendere atto).

L’impresa avrà così modo gradualmente di valutare la qualità, affidabilità e utilità di questi moderni strumenti per la produttività, condivisione ed analisi dati aziendale, imparando nel contempo a gestire autonomamente le operazioni di backup e ripristino dei dati.

Solo dopo aver preso confidenza con le nuove tecnologie introdotte si potrà valutare con la proprietà un allargamento dell’adozione anche ad altri collaboratori e in caso di un utilizzo strategico ed intensivo, iniziare a richiedere preventivi per un supporto tecnico più avanzato e personalizzato coinvolgendo società di servizi IT più strutturate (diverse grandi aziende dell’informatica commerciale-proprietaria “per non farsi tagliare fuori dal mercato” hanno recentemente aperto divisioni interne per supportare i sistemi Linux presso multinazionali, istituti di credito, enti pubblici e governativi, anche se ad oggi le loro tariffe sono il più delle volte al di fuori della portata delle micro imprese con budget limitati) oltre eventualmente agli sviluppatori originali dei software liberi che offrono personalizzazioni e infrastrutture su cloud SaaS a pagamento.

I costi di gestione sicuramente lieviteranno rispetto al periodo iniziale (anche se resteranno ampiamente inferiori rispetto a quelli che sarebbero stati sostenuti per tecnologie proprietarie o commerciali), ma almeno l’imprenditore avrà già avuto modo di riscontrare un miglioramento organizzativo e di promuoverlo strategicamente anche presso nuovi clienti più grandi, sensibili all’elevato livello di organizzazione, intenazionalizzazione e digitalizzazione dei propri fornitori (da ex gestore di numerosi ed importanti subappalti nazionali/internazionali di field service industriale ricordo quanto fosse difficile per i micro/piccoli subappaltatori coinvolti nei lavori, farsi carico “come da contratto d’opera/subappalto/subfornitura” anche degli adempimenti gestionali in lingua inglese “contract, project & service, HSE management” del loro scopo di fornitura).


** ** I miei interventi sono concepiti per aiutare
a digitalizzare (con un paradigma ecosostenibile basato sull’ingegnosità-innovazione frugale avanzata e riuso-ricondizionamento dei propri computers Windows obsoleti, da convertire in moderne workstations/server Linux) il territorio e/o aree rurali-disagiate (anche estere) in contesti SOHO (Small Office/Home Office) privi dei necessari budget d’acquisto di tecnologie informatiche proprietarie/commerciali per rafforzare resilienza operativa digitale, privacy, confidenzialità durante l’uso dei PC e/o da adottare anche in caso di eventi complessi ed emergenziali (blocco globale catene di fornitura, blackout, calamità), ma soprattutto durante i sempre più diffusi attacchi informatici, disfunzionalità ed indisponibilità dei tradizionali sistemi ICT e servizi in cloud (anche causa cambi delle politiche-licenze commerciali e/o non rispetto del GDPR). **

Come affrontare per le organizzazioni di service post-vendita industriale il problema dell’elevato turnover di personale nel field service

Tutti i reparti di service post-vendita industriale hanno appreso da pregresse esperienze che i dipendenti addetti agli interventi di field service che forniscono il miglior servizio tecnico in campo, cantiere, remoto (e-mail, telefono, tele-assistenza, etc.) possono quasi sempre scegliere tra le migliori opportunità lavorative presenti sul mercato, e che più la squadra di field service è efficiente, più è vulnerabile alle lusinghe (potenziali nuove opportunità di lavoro) offerte dalla concorrenza o dallo stesso cliente finale (a volte lo si capisce quando iniziano a richiedere solo e sempre quel particolare tecnico per ogni intervento).

Per evitare l’elevato turnover tipico del comparto i reparti post-vendita “illuminati” rendono la gestione del talento una priorità assoluta e progettano iniziative per reclutare, formare e trattenere i loro manager e tecnici di “Field”.

Nel service per componenti, sistemi, equipaggiamenti, macchinari, impianti industriali complessi e tecnologicamente avanzati (per non parlare di quelli software-intensive), dove sono richiesti skills rari oltre ad una vasta e continua esperienza sul campo non è quasi mai vero l’assunto del tutti sono sostituibili e nessuno è indispensabile.

Per mantenere i veri talenti, i migliori reparti di service progettano percorsi di carriera interessanti e gratificanti e offrono una varietà di incentivi finanziari e non finanziari. Inoltre, sviluppano processi chiari per la pianificazione del personale, la gestione del talento e il reclutamento, e creano piani di carriera flessibili e a lungo termine in particolare per i tecnici di field service. Prevedendo inoltre che dopo una decina di anni non siano più (probabilmente) disponibili per operare sempre all’estero in campo, cantiere e che desiderino ambire ad un nuovo qualificato ruolo in sede presso la casa madre.

In Italia si sono persi negli anni un numero molto elevato di tecnici altamente specializzati ed esperti, che stanchi di operare perennemente in reperibilità, trasferta (anche i trasfertisti hanno o vogliono mettere su famiglia…) sono stati allontanati dalle aziende per le quali hanno lavorato, obbligandoli a reiventarsi in ruoli che a volte nulla hanno a che vedere con il loro pregresso iter professionale o a trasferirsi con tutta la famiglia come expat per lavorare nelle fabbriche-impianti che avevano precedentemente avviato e manutenuto per anni.

Ricordiamoci (se vogliamo fare realmente service post-vendita industriale) che una squadra di field service talentuosa migliora l’efficienza del reparto, aumenta la qualità e “sicurezza sul lavoro” durante gli interventi, riduce i costi operativi/organizzativi e aumenta il fatturato (e relativi margini, profitti) stimolando nel contempo una continua domanda per tutte le linee di service offerte dall’OEM (il field service è a mio avviso da sempre il miglior partner dell’ufficio commerciale).

Inoltre e’ comprovato che per molti paesi, le differenze nella penetrazione del business service/post-vendita che si possono osservare per un OEM dipendono più dalla qualità delle squadre di field service locali/di prossimità che da qualsiasi altro fattore.

Concludo che costruire e trattenere il talento del field service non è solo un problema di risorse umane da risolvere tatticamente, ma è un piano strategico che proietta l’azienda avanti rispetto alla concorrenza.

P.S. consiglio sempre alle organizzazioni di impegnarsi nell’approfondimento della nuova ISO 31030 (travel risk management) oltre che della più generale ISO 31000 (in combinazione con la OSHAS 18001 ed ISO 45001) anche e soprattutto per i lavoratori trasfertisti in solitario

Non Tutte le Linee di Service Industriale sono Redditizie

In anni di pregressa attività lavorativa ho avuto modo di specializzarmi nella vendita, gestione, esecuzione di complessi contratti e progetti (nazionali/esteri) su commessa nel service post-vendita industriale in particolare lato beni strumentali/sistemi “software-intensive” (customer care, site/field, after-sales, aftermarket, lifecycle) operando sempre con una forte attenzione rivolta a ridurre ed evitare i rischi e le criticità tipiche del comparto, in particolare in quest’ultimo periodo che ha visto la nascita di un nuovo paradigma di business (ancora scarsamente diffuso in Italia) per gli OEMs basato sulla servitizzazione manifatturiera.

Un modello innovativo già in uso da più di un decennio nel comparto software/hardware dei moderni sistemi informativi (basato sinteticamente su un meccanismo di sottoscrizione “paghi per l’uso” con service post-vendita incluso nel canone) ma potenzialmente rischioso per i fornitori di beni strumentali industriali che ad oggi non sono stati sistematicamente in grado di vendere e gestire profittevolmente il proprio service post-vendita basato ancora su pratiche commerciali e contrattuali più tradizionali basate su contabilizzazioni economiche principalmente a misura (soprattutto per le attività in campo internazionali) e solo in parte a corpo.

E’ risaputo che gli end-user sono diventati molto più esperti e attenti ai costi. Oggi molti dei responsabili di impianto, stabilimento e manutenzione (che sono poi gli interlocutori principali per chi si occupa delle vendite di servizi tecnici) vedono il service industriale moderno offerto dai fornitori come indispensabile, anche se a volte eccessivamente costoso-pervasivo e che (se non regolamentato) alla lunga potrebbe esternalizzare parte delle loro mansioni, pertanto tendono (comprensibilmente) a mostrare interesse solo per un numero limitato e mirato di servizi sufficienti per essere supportati principalmente nelle situazioni più complesse e/o di emergenza.

Per tale motivo (pur consapevoli di veder rigettata l’offerta) è necessario presentarsi dal potenziale cliente (end-user) sempre e solo con una proposta commerciale di valore ed integrata (stando ben attenti a valutare le richieste di estensioni di garanzia su componenti, sistemi, equipaggiamenti e macchinari datati), senza scorporare o frammentare (anche in termini economici) la linea di servizio offerta, pena il rischio di finire relegati nella sola vendita (anti economica) di singole ma dispendiose attività delle quali elenco una piccolissima parte a titolo di esempio:

  • ricerca di un numero limitato e mirato di componenti commerciali difettosi fuori produzione (il business del service industriale per essere sostenibile deve essere in grado di vendere anche set mirati e completi di ricambi, lasciando al mercato dei broker di materiale le ricerche mirate di singoli componenti commerciali sciolti ed osboleti)
  • incarichi per la risoluzione “spot” di singole e croniche problematiche tecniche (senza far sottoscrivere un accordo di assistenza e manutenzione almeno annuale)
  • offerta gratuita di supporto telefonico ed e-mail (in orari di ufficio) senza che venga sottoscritto un accordo di assistenza e manutenzione (ritenendo erroneamente che il semplice servizio e-mail/telefonico vada fatto pagare solo fuori dall’orario lavorativo, salvo poi scoprire che il cliente “furbetto” sarà da li in poi libero di impegnare-monopolizzare (senza limiti di tempo) al telefono/e-mail il personale tecnico/commerciale ogni qualvolta avrà un problema (il più delle volte banale), sottraendolo magari da altre attività di supporto ai clienti paganti con contratto)
  • avvantaggiarsi commercialmente comunicando al cliente oltre ai canali telefonici/e-mail dedicati al service anche i riferimenti di contatto diretti dei propri responsabili aziendali. Prassi che servirà solo a tagliar fuori l’organizzazione di service post-vendita preposta ed innescare continue e caotiche escalations interne (e relative disfunzionalità organizzative nel breve-medio termine anche per tutti gli altri interventi di field service in preparazione e/o già in corso)
  • disponibilità all’invio “spot” di tecnici in campo dietro semplice richiesta del cliente (fatturato a misura/consuntivo) senza che venga anche sottoscritto un contratto di reperibilità, assistenza e manutenzione per i futuri interventi (fondamentale per coprire i costi di supporto-analisi tecnica, lifecycle-management/RCA specifici per la sua base d’installato)
  • micro lavori di sostituzione componentistica obsoleta (phase-out) o ammodernamenti (upgrade, retrofit, revamping) di piccola entità (e fatturato/marginalità) comparati al valore e complessità del prodotto oggetto dell’intervento. Attività che non serviranno altro che a far riaccendere onerose-rischiose garanzie, magari su un sistema/equipaggiamento/macchinario ampiamente già a fine vita (che poteva quindi essere riammodernato integralmente o addirittura rimpiazzato con uno nuovo!!). Tale problematica la segnaliamo anche alle numerose startup/società di informatica che si sono buttate (senza pregressa esperienza contrattuale, esecutiva nell’automazione industriale) nel settore Industria 4.0/Manutenzione 4.0, ritrovandosi poi anche loro invischiate (alla stregua degli OEMs) nelle sempre più frequenti dispute commerciali sulle cause dei fermi macchina
  • interventi in garanzia perchè il cliente ritiene (a volte senza dare evidenze o permettere una valutazione contradittoria) che le precedenti attività tecniche in campo (field-service) non sono risultate soddisfacenti o hanno procurato successivamente altre problematiche
  • noleggio di strumentazione da campo senza richiedere la presenza del tecnico; o noleggio/affitto dei pezzi di ricambi più costosi (rifacendosi grossolanamente agli emergenti modelli di business della servitizzazione manifatturiera, che sono in realtà ben altra cosa) sino alla richiesta per la creazione di un magazzino ricambi conto deposito da parte del fornitore (senza che sia poi garantito da parte del cliente l’acquisto dei materiali al termine del contratto)
  • interventi di field service senza contabilizzazione a misura delle ore e oneri di viaggio, vitto, alloggio (sostituiti dal cliente con un ammontare a forfait)

Esistono anche convenzioni contrattuali (a “scalare” o a “gettone”) con le quali gli uffici acquisti (che sanno fare bene il loro mestiere) accrescono (sulla carta) semplici esigenze “spot” per interventi e ricambistica (solitamente in emergenza) trasformandole (per incentivare il fornitore di service industriale) in corposi ed articolati accordi quadro (anche dall’ammontare importante) di reperibilità, assistenza e manutenzione programmata, ma vincolati nell’effettiva esecuzione e fatturazione (specialmente per le manutenzioni preventive, predittive) dal rilascio di ordini supplementari specifici per l’intervento.

Il che si traduce poi per il fornitore nell’avere nell’anno un’ entrata ordini potenziale (da parte del singolo cliente) con un ragguardevole ammontare massimale specificato “idealmente” sulla carta, salvo poi arrivarne a fatturare solo una piccola parte, magari dopo aver anche affrontato difficoltà logistiche e operative inaspettate (senza tralasciare eventuali extra-costi non previsti, o peggio assumere ulteriori tecnici di field service da dedicare al contratto che non verranno poi impiegati al massimo della loro disponibilità temporale).

Quanto sopra sono solo banali esempi delle limitate e pertanto anti economiche richieste che potrebbero scaturire quando si contatta per la prima volta il proprio cliente per promuovere e vendere anche forniture e contratti stutturati per il service post-vendita industriale, come quelli sotto indicati:

contratti annuali per il supporto telefonico, e-mail, monitoraggio, diagnostica, e assistenza remota per la base installata

  • contratti annuali per interventi tecnici in campo (anche in complessi contesti project-based EPC, heavily regulated countries, marine, harsh/hazardous areas & hostile environments)
  • forniture di set completi di ricambi
  • fermate manutentive minor e major (durante turnaround, shutdown ed outage)
  • manutenzioni preventive/predittive con l’ausilio di strumentazione da campo
  • installazioni, cablaggi, avviamenti e messe in servizio (commissioning, startup, handover) anche in contesti (appalti/subappalti) EPC
  • test e collaudi (system, string e performance test)
  • manutenzioni, riparazioni, revisioni e ricondizionamenti
  • accordi quadro e contratti di service a lungo termine (reperibilità telefonica, pronti a partire, LTSA)
  • progetti di ammodernamento (upgrade, retrofit, revamping, replacement, expansion) lato componenti, dispositivi, sistemi, architetture per aumentare il ciclo di vita della base installata
  • progetti di ammodernamento Industria 4.0/Manutenzione 4.0 (upgrade, retrofit, revamping, IT/OT integration, OT/SCADA/IACS/ICS cybersecurity) software-intensive necessari per attivare nuovi servizi industriali digitali (rivolti alla manutenzione predittiva) di monitoraggio, diagnostica, e assistenza remota per la base installata
  • consulenze per l’ingegneria di manutenzione, affidabilità, continuità di servizio
  • servizi di root cause analysis (RCA) ed ingegneria forense
  • formazione ed addestramento
  • noleggio e taratura di strumentazione da campo
  • studi, ricerche e comparazioni di componentistica equivalente per la gestione di obsolescenze

Chi opera nel comparto dei beni strumentali industriali deve sempre aver ben chiaro che l’obiettivo commerciale “fair-equilibrato” di chi vende contratti di service post-vendita industriale non è creare eccessive-opportunistiche rendite all’azienda per la quale lavora (che è la base della spesso discutibile “subscription-economy” di molte aziende del digitale, media, telco), ma di aiutare realmente-concretamente (fidelizzando) il cliente (rendendosi disponibili-presenti solo quando veramente serve) senza cercare di sostituirsi completamente al loro personale manutentivo interno, avendo però ben chiaro, d’altro canto, che la propria organizzazione di service ha anche dei costi importanti (mensilmente) da coprire.

Costi che crescono in base al numero di tecnici di field service a disposizione (in particolare se questi non sono sempre impegnati in campo e rimangono su centro di costo in attesa di commesse) o perchè si è voluto dotare il proprio magazzino di un numero elevato di ricambi a pronto per far fronte alle emergenze, ma che rimangono poi invenduti a fine anno.

Ma Stiamo Realmente Facendo Service Post-Vendita Industriale ??

Dal 2003 promuovo una maggior cultura e conoscenza generale sulle operations di service post-vendita nazionale/internazionale in ambito industriale.

Mi piace ogni tanto andare contro corrente, lontano dal sensazionalismo di molte analisi di mercato e studi accademici che si trovano su internet (fin troppo ottimistiche rispetto alla quotidiana realtà lavorativa) inserendo nei nostri case-history, anche esempi di prassi operative di service da evitare, oltre alla descrizione di alcune criticità tipiche del comparto, in particolare nelle medie e grandi aziende dove inizia a diventare elevato il numero di clienti, stakeholders, transazioni ed escalations (un termine elegante e professionale per indicare dagli addetti ai lavori “emergenze e crisi”) da gestire.

E’ sufficiente navigare su internet e visitare i vari siti web aziendali per realizzare che ormai ogni impresa, dal piccolo rivenditore industriale al grande OEM appartenente alla multinazionale di turno, è ormai da anni dotato di un’efficiente e strutturata organizzazione (magari H24/365) per il service post-vendita industriale. Ma se andiamo a grattare via lo spesso strato di marketing, scopriamo che in molte realtà le cose sono ben diverse e ancora ferme ai modelli organizzativi degli inizi anni 90 (quando per la prima volta si è iniziato a parlare di service nel comparto industriale e le prime organizzazioni post-vendita minimali venivano denominante uffici servizi assistenza tecnica “SAT”).

Tralasciando le organizzazioni dove il service post-vendita non è ancora diventato un centro di profitto (perchè magari si teme di perdere i clienti a fargli pagare oltre al prodotto anche l’assistenza…) ed è costituito essenzialmente da un servizio “spot” di assistenza in campo operato da personale interno di produzione (gestito solitamente dal commerciale), oltre che dal supporto telefonico erogato direttamente dall’impiegato di turno dell’ufficio tecnico (e fuori dall’orario lavorativo direttamente dal titolare), concentriamo la nostra analisi invece sulle aziende con volumi di affari “Service” importanti (almeno come percentuale di fatturato).

E’ mia prassi, prima di accettare ogni nuovo incarico fare una fotografia ed analizzare il reale stato strutturale, organizzativo e di performance dell’organizzazione di service post-vendita industriale che andrò a supportare con i miei interventi consulenziali ed esecutivi. Tra le varie analisi una delle più importanti è il concorso delle varie linee di servizi (commercializzabili) alla generazione del volume d’affari post-vendita.

Sembra anomalo (se confrontato con quello che si legge sensazionalisticamente su internet), ma nella realtà molte organizzazioni (piccole e grandi) che credono di operare da anni con successo ed elevati volumi e marginalità nel service sono in realtà ancora semplici estensioni del tradizionale business basato sulla vendita di nuovi prodotti (commercializzazione).

Questo perchè il grosso del giro d’affari scaturisce principalmente da attività di installazione, montaggio, cablaggio, messa in servizio, avviamento e vendita ricambi (principalmente) per “nuovi” sistemi, equipaggiamenti, macchinari, mentre solo una minima parte è generata dallo sfuttamento dell’intero ciclo di vita della propria “vecchia” base di installato e quindi da un portfolio “contratti strutturati” per prestazioni manutentive complesse in campo (field service/lifecycle) e progetti di ammodernamento (upgrade, retrofit, revamping, replacement, expansion).

Tutto ciò si traduce che quando la produzione ha un calo del lavoro (fenomeno molto frequente negli ultimi anni a causa del susseguirsi di varie crisi internazionali) e quindi una diminuzione del fatturato per nuovi prodotti lo stesso avviene lato vendita di servizi, facendo venire meno l’effetto calmierante (cuscinetto) che il service post-vendita dovrebbe anche ricoprire nei momenti di congiuntura economica negativa.

E’ innegabile che i fatturati dei montaggi, cablaggi, messe in servizio, avviamenti possano essere in alcuni casi considerevoli e con marginalità almeno doppie rispetto alla vendita di prodotto e possano pertanto divenire strutturali al raggiungimento di obiettivi economici di performance dei reparti service, oltre che fonte di reinvestimento (nelle aziende illuminate) per accrescerne l’organizzazione. Cionondimeno introducono una distorsione sui reali obiettivi dei business per il post-vendita che è invece quello di sfruttare continuativamente opportunità (anche minime) di fatturato e raccolta di profitti per l’intero ciclo di vita del prodotto (a meno che non sia più conveniente e redditizio sostituirlo col nuovo).

Esiste poi il problema della “complessità tecnica” che contraddistingue le messe in servizio e gli avviamenti, perchè il prodotto va fatto funzionare per la prima volta (con tutte le incognite del caso) e potrebbe (anzi sicuramente) presentare criticità progettuali inaspettate o essere carente (capita molto più spesso di quanto si crede) di funzionalità e specifiche contrattuali perchè oggetto di recenti varianti in corso d’opera che non è stato possibile testare completamente (tipico nelle produzioni di equipaggiamenti/macchinari ETO/One-of-a-Kind e sistemi d’automazione discreti/elettromeccanici/meccatronici con una preponderante componente “software-intensive”).

Il fatto poi che la messa in servizio, avviamento non sia più gestita dal reparto di progettazione/produzione introduce delle latenze operative ed organizzative tra il service (che non può essere a conoscenza di tutto l’excursus progettuale, magari della durata di diversi mesi), il team di ingegneria interno (che si ritrova ora magari completamente ed urgentemente impegnato su un nuovo progetto) ed il cliente che si aspetta velocità e rapidità di esecuzione nell’affrontare ogni problematica sul campo per partire/ripartire con la produzione.

Un’altra componente che declassa a semplice ufficio di assistenza tecnica (stile anni 90) molte delle organizzazioni di service post-vendita industriale di molte aziende nazionali è l’incapacità di operare fuori dall’orario lavorativo o durante le festività con quasi gli stessi livelli di performance offerti nei normali orari di lavoro settimanali.

Questo può essere (forse) normale per i clienti in Europa, accettabile per chi opera nelle aree degli emirati, medio oriente (la domenica qui si lavora e si riposa il venerdì), ma non è più sostenibile quando la differenza di fuso orario (oltre che dei periodi di ferie e festività) inizia a farsi importante (Stati Uniti, America Latina, India ed Estremo Oriente).

In questi casi molte delle organizzazioni service cessano momentaneamente di performare adeguatamente relegando a pochi volenterosi tecnici progettisti e venditori/gestori/operatori che da soli in ufficio, a casa il week-end o comunque principalmente fuori dall’orario lavorativo si ritrovano a tamponare telefonicamente o per e-mail il temporaneo depotenziamento dell’organizzazione per la quale lavorano. Anche e soprattutto per tali motivi di carente sincronizzazione oraria-lavorativa serve sempre pensare allo sviluppo di service centers di prossimità ai clienti (almeno per i più importanti).

La stessa criticità è poi ancor più amplificata per i tecnici trasfertisti (field service engineers) e i vari gestori-coordinatori “expat/resident” sul campo che devono pazientare (a volte facendo fronte a grandi pressioni dei clienti) in attesa della riapertura degli uffici in sede per essere nuovamente supportati tecnicamente e logisticamente.

Pro & Contro del Service Post-Vendita Industriale

Dal 2003 promuovo una maggior cultura e conoscenza sulle operations di service post-vendita/field service nazionale/internazionale in ambito industriale.

Mi piace ogni tanto andare contro corrente, lontano dal sensazionalismo di molte analisi di mercato e studi accademici che si trovano su internet (fin troppo ottimistiche rispetto alla quotidiana realtà lavorativa) inserendo nei miei case-history, anche esempi di prassi operative di service da evitare, oltre alla descrizione di alcune criticità tipiche del comparto, in particolare nelle medie e grandi aziende dove inizia a diventare elevato il numero di clienti, stakeholders, transazioni ed escalations (un termine elegante e professionale per indicare dagli addetti ai lavori “emergenze e crisi”) da gestire.

Il business dei contratti di service post-vendita industriale (soprattutto in tempi di forte concorrenza e continua decrescita economica) rappresenta in via generale (nonostante le numerose difficoltà per attuarla) la miglior strategia commerciale per integrare sensibilmente il proprio fatturato con nuove linee di ricavi, accrescere i margini e migliorare la soddisfazione del cliente, fidelizzandolo in vista di nuovi forniture e progetti.

I vantaggi sono molteplici, perchè l’offerta di service post-vendita industriale (anche se limitata nei volumi di fatturato) se eseguita integralmente, professionalmente e fedelmente secondo le aspettative della clientela, rimane comunque maggiormente reddittiva rispetto alla vendita del prodotto, scalabile nel medio termine, fortemente personalizzabile, meno soggetta alle competizioni sul prezzo, difficilmente replicabile (se basata sul capitale di conoscenze tecniche e di utilizzo del prodotto) e soprattutto sostenibile, durevole nel lungo periodo oltre che programmabile in funzione della dimensione della propria base installata.

Esiste inoltre un vantaggio commerciale non indifferente perchè la relazione di service genera quasi sempre un contatto molto più stretto e continuativo con il cliente (e con i numerosi attori della sua organizzazione, oltre che in taluni casi con i suoi stessi clienti finali) rispetto alle tradizionali relazioni basate sulla vendita di prodotto, il più delle volte limitate alla sola trattativa commerciale (oltre che quasi sempre relegata al solo personale degli acquisti e progettazione). In questo settore i venditori più performanti sono il più delle volte anche gli ex gestori dei contratti (after-sales project & service managers oltre ai tecnici di field service) che hanno deciso di abbracciare il mondo delle vendite.

Sappiamo anche che non è semplice, rapido ed economico attuare tale strategia (in particolare nei periodi con forti limitazioni agli spostamenti, viaggi ed incontri di business) dal momento che la stessa richiede un drastico cambio di cultura, organizzazione e competenza aziendale. Innanzitutto vendere servizi è completamente diverso dal vendere prodotti (in particolare per chi da anni è abituato a vendere, regalando sistematicamente il servizio “post-vendita” come concessione supplementare o extra sconto nelle trattative commerciali), inoltre una semplice attività di service (se mal gestita) può impattare il più delle volte in maniera rapida, inaspettata e trasversale su tutta l’organizzazione aziendale, oltre che scalare verticalmente sino ai vertici dell’azienda (escalations).

Anche le aziende più strutturate che da anni lavorano con centri di profitto basati sul service industriale vivono di frequente un intensa tensione tra le business unit di progettazione-produzione prodotto (commercializzazione) e post-vendita (after-sales, aftermarket, field-service). Principalmente per dispute sulle disponibilità delle risorse trasversali condivise (solitamente magazzino, spedizioni, ingegneria e produzione) o per i vicendevoli scarichi di garanzie, costi e oneri vari a difesa del proprio conto economico di commessa e reparto.

Purtroppo molte imprese hanno nel tempo sottovalutato l’impatto culturale, commerciale ed organizzativo del service post-vendita moderno (oggi sempre più nuova fonte di ricavi e non più centro di costo come in passato) relegando ad un numero sottodimensionato di coordinatori, operatori front-office, back-office e tecnici di assistenza (field service engineers) la gestione di richieste cliente e l’esecuzione di complessi interventi in campo. Ritrovandosi a volte con l’organizzazione service isolata dal resto dell’azienda (che continua ad operare secondo i tradizionali paradigmi prodotto-centrici ) e con l’attenzione rivolta eccessivamente alla performance economica (generazione di fatturato e salvaguardia delle marginalità), il più delle volte a discapito della soddisfazione cliente.

Così facendo queste imprese commettono il tipico errore di chi vuole operare nel business del service post-vendita (ma ne farebbero probabilmente a meno), dimenticando che il servizio rappresenta a tutti gli effetti una vetrina ed un biglietto da visita della propria attività, oggi ancor più della propria forza commerciale, della capacità produttiva o delle caratteristiche e funzionalità avanzate di prodotto.

Con il risultato di deteriorare nel tempo i rapporti con i clienti (per non parlare del continuo avvicendamento del personale addetto) a causa dell’insoddisfacente livello di servizio offerto, danneggiando nel contempo l’immagine globale della propria azienda e prodotto, con conseguente calo degli ordinativi per nuove forniture.

P.S. il tema del rischio reputazionale aziendale (un tipico indicatore è il non riuscire a rimanere a lungo all’interno delle vendor-list dei propri clienti a causa della carenza di risorse chiave per operare e/o per il decadimento qualitatitivo del proprio prodotto e servizio) è stato ripreso in Italia dalla recente normativa sulla crisi d’impresa e sugli adeguati assetti organizzativi che introduce delle apposite check-list, oltre ad interessanti KPI per valutare l’operato organizzativo-esecutivo-gestionale-finanziario di un’azienda (oltre a tutta una serie di utili warning per intercettarne anticipatamente l’eventuale entrata in stato di crisi).

Escalations !! Ovvero l’arte di complicare rapidamente i già complessi processi di service (post-vendita/field service) industriale

Come addetto di lungo corso nel service, desidero promuovere anche una maggior cultura e conoscenza specifica sulle operations di service post-vendita/field nazionale/internazionale in ambito industriale. 

Per questo motivo mi piace ogni tanto andare contro corrente, lontano dal sensazionalismo di molte analisi di mercato e studi accademici che si trovano su internet (fin troppo ottimistiche rispetto alla quotidiana realtà lavorativa) inserendo nei miei case-history, anche esempi di prassi operative di service da evitare, oltre alla descrizione di alcune criticità tipiche del comparto, in particolare nelle medie e grandi aziende dove inizia a diventare elevato il numero di clienti, stakeholders, transazioni ed escalations (un termine elegante e professionale per indicare dagli addetti ai lavori “emergenze e crisi”) da gestire.

In ambito accademico, marketing e direzionale ci sono da tempo bravi professionisti capaci di progettare complessi schemi, flussi e processi funzionali sul come dovrebbe idealmente funzionare una fluida, efficiente, moderna, complessa e scalabile organizzazione di service post-vendita industriale, ma nella realtà dei fatti, ancora oggi, quando si incappa in un escalation e si deve correre per contendersi/accaparrarsi le sempre più limitate risorse necessarie a risolverla (in particolare se l’azienda è ancora fortemente prodotto-centrica), l’esperienza insegna che chi è più in alto nell’organigramma aziendale (o semplicemente urla più forte..) ha le probabilità più elevate di far prevalere all’interno dei vari uffici/reparti le proprie priorità e saltarci fuori rapidamente.

Nell’arco della mia attività lavorativa ho assistito al crescere della pressione sulle organizzazioni service (e post-vendita/field più in generale), innescata principalmente (prima della pandemia) da una progressiva riduzione del tempo (regolamentato contrattualmente) necessario per attivare e far arrivare in emergenza un tecnico e/o ricambio in un impianto/stabilimento/cantiere all’estero. Un fenomeno che per gli addetti ai lavori è sempre stato gestibile (nonostante le crescenti difficoltà logistiche, visto che approvvigionare e spedire rapidamente (24/48/72 ore) uno o più componenti industriali fuori dall’EU non è proprio una passeggiata, in particolare se si lavora “in campo-cantiere” con decine e decine di nazioni diverse ognuna con le proprie procedure “ostative” amministrativo-burocratiche e doganali d’importazione….).

Nel contempo si è rapidamente e parallelamente sviluppata una prassi molto più difficile da controllare, che rischia di minare nel lungo termine l’efficienza ed efficacia di qualsiasi organizzazione internazionale di service post-vendita industriale.

Sto parlando della crescente abitudine di una parte dei clienti finali (per scalare in priorità durante una presunta emergenza) di cercare da subito un canale diretto con commerciale, direzione e proprietà, bypassando di fatto l’intera organizzazione service preposta a supportarli.

Ora se l’organizzazione aziendale globale è solida e coesa, questi tentativi vengono arginati, ma se a livello commerciale o direzionale non si è rapidi e fermi a indirizzare il cliente a seguire i canali dedicati di supporto, gli effetti sono appunto l’innesco di continue e caotiche escalations. Non causate da continui arresti o gravi guasti conclamati della propria base di installato, ma bensì dagli insistenti e reiterati reclami di qualche cliente che (il più delle volte a fronte di semplici allarmi o anomalie tecniche minori) rivendica una maggior priorità per essere subito supportato dal fornitore.

So per esperienza che è sufficiente fare una sola concessione e da lì in poi quel cliente non seguirà più i canali appositi di segnalazione, attivazione e supporto del service (customer care), ma martellerà incessantemente per telefono ed e-mail venditori, direttori e titolari (i quali, con buona probabilità si metteranno a loro volta a esercitare ancora più pressione all’organizzazione post-vendita stessa), fintanto che non verrà spedito il ricambio e/o fatto salire d’urgenza sul primo aereo disponibile anche un tecnico con visto pronto (magari ottenuto per un altro intervento già programmato), mandando in fumo il lavoro di programmazione, schedulazione di molti altri interventi che potrebbero a loro volta venir posticipati in cascata (ogni volta che si richiede un visto, il passaporto viene ritirato da consolato o ambasciata, pertanto in quel periodo il tecnico potrà solo operare in Italia ed EU, e se si lavora principalmente in nazioni extra EU questa è una grave limitazione di risorse con il crescente rischio di aumentare le varianze economiche derivanti dal personale trasfertista che rimane “in attesa in ufficio” su centro di costo interno e non spesato su commessa cliente).

Le escalations (quelle vere, serie e gravi) fanno da sempre parte del business service post-vendita in ambito industriale e nel tempo la loro frequenza è rimasta limitata, ma negli ultimi anni (stando al mio circuito di relazioni professionali) il loro numero sembra invece essere aumentato considerevolmente diventando una delle principali cause del frequente turnover (già normalmente elevato) del personale tecnico (field service engineers) e di gestione clientela impiegato nel comparto.

Le risorse umane hanno da tempo cercato di risolvere il problema inserendo “la capacità di gestire la pressione ed operare durante le escalations” come requisito per ricoprire le nuove posizioni di operations per il service post-vendita, ma senza successo visto che alla lunga un addetto che già si trova quotidianamente esposto (il più delle volte anche fuori dall’orario lavorativo soprattutto se si opera con grandi differenze di fuso orario) alle difficoltà e sollecitazioni prodotte dalle innumerevoli pressanti richieste e problematiche scatenate dai clienti in difficoltà (senza scordarsi dei tecnici trasfertisti in campo che richiedono a loro volta continuo ed immediato supporto in particolare se si persegue il “Duty-of-Care”), difficilmente riuscirà ad avere ulteriore tenuta motivazionale nell’arco degli anni per assorbire sempre più frequentemente anche la crescente pressione che si riceve internamente dalla propria azienda.